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L’arte è diventata una palla?

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Bigas Luna, XXI Courtesy Familia Bigas Luna

Quest’anno fanno trent’anni da quando ci siamo conosciuti.

In tutto questo tempo la frequentazione con M é stata piuttosto altalenante eppure, se penso a lui, penso ad un amico, ad un punto di riferimento. Forse perché lontano, con una vita ed un punto di vista diverso dal mio e quindi utile a spostarmi dalla zona di confort dalla quale sono solito vedere il mondo.

Poco tempo fa ci siamo scritti e tra la varie cose che ci siamo detti una mi ha colpito: “L’arte é diventata un po’ una palla!”.

M di arte ne sa a sufficienza, non é uno sprovveduto. É una persona che l’ha studiata, l’ha seguita e l’ha vissuta. Mi ricordo quando durante gli anni dell’accademia andavamo con un gruppo di amici al lago per stare insieme. Suonavamo, cantavamo, cucinavamo, leggevamo, e dipingevamo. Portavamo con noi cavalletti, tele e colori. Passavamo ore en plein air a dipingere paesaggi o farci ritratti e, ad oggi, uno dei ritratti più struggenti che mi abbiano mai fatto é di M. Tempo fa mi mandò una foto di quel disegno e sentii un nodo allo stomaco perché, al di là della sua bellezza, ritrovai me stesso. Un me stesso di molti anni fa forse, un pezzo di me che ricordo con amore e tenerezza.

Ogni volta che penso a M lo faccio attraverso una foto in bianco e nero che gli avevo scattato con la Rolleiflex di mio nonno. Un primo piano di profilo davanti al cavalletto dipingendo. Dietro di lui il lago visto dalla sponda di Bellagio, l’aria umida e spessa del tardo autunno.

M mi ha confidato che ancora oggi dipinge ad acquarello su blocchi di carta. Per se stesso, per star bene, per sentire la poesia del colore e delle forme.

Quando leggo M dire che “l’arte é diventata un po’ una palla” qualcosa in me soffre. Forse non era nelle sue intenzioni, ma quel “po’”mi strazia. “Un po’” come dire che non riesce nemmeno ad essere una vera palla tanto da far incazzare. Solo un po’, come qualcosa di poco conto, di cui ci possiamo liberare facilmente con un semplice gesto della mano: un moscerino.

E quella parte di me soffre perché sa che M dice la verità.

In parte perché vivo la sua stessa condizione ed in parte perché vedo l’arte rimbalzare come fosse una vera e propria palla da un campo all’altro del gusto, in mano sempre al giocatore più abile, senza possibilità di rivolta.

Non é un caso che la maggior parte delle persone che la seguivano abbiano smesso di farlo. Non scandalizzate dall’irriverenza a volte violenta che, ormai troppi anni fa, la animava, ma semplicemente annoiate.

Alcune da un gusto estetico fine a se stesso e che avvicina sempre più l’arte ad un oggetto di design privato della funzionalità, altre dal ruolo decorativo che la riduce a sfondo per i selfie di Instagram o poco più, una specie di carta da parati 2.0 o nel migliori dei casi una tappezzeria. Altre ancora annoiate ed estenuate dalla retorica concettuale sempre più morbosamente inutile, abbruttiti davanti ad opere dalla dubbia qualità e correlate da testi sempre più ermetici ed alla fin dei conti vuoti di contenuto.

E nonostante io viva l’arte diversamente dalle persone che han deciso barattarla per altro, non posso negare che faccio sempre più fatica a sopportare l’insieme degli aspetti sopraesposti.

C’é qualcosa nell’arte contemporanea, ma non solo, probabilmente in tutta la società, qualcosa di velenoso che tende ad assopire il desiderio e l’unicità. La realtà privata della spinta vitale viene organizzata secondo uno schema che, per quanto attraente esso possa sembrare, rimarrà sempre tale quindi gabbia.

L’arte invece ha bisogno di volare.

Ho sempre pensato all’arte come a una visione che, uscendo dagli schemi, sposta il confine del desiderio abbattendo le recinzioni spinate dell’omologazione per liberarci, per cambiare la società ed il mondo. Una questione di vita e di morte, la stella polare dell’umanità.

Eppure, allo stesso modo in cui la politica grazie alla ricerca ossessiva del consenso ha smesso di essere guida dei popoli e delle nazioni, l’arte si é ridotta ad assecondare i gusti di un certo tipo di società.

O forse é sempre stata così?

Un’amica l’altro giorno mi chiedeva come noi, popolo dell’arte, possiamo sopportare tanto vuoto.

Non risposi ma ora lo so.

Con la speranza. Solo grazie alla speranza.

E ricordo M davanti al suo cavalletto con gli occhi luminosi assorti nella visione di un punto lontano del lago.

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