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Martino Gozzi. Il libro della pioggia

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Il ricordo sbiadisce, il ricordo si adatta, il ricordo si adegua a ciò che pensiamo di ricordare.”

Questa citazione di Joan Didion, tratta da uno dei suoi romanzi più struggenti (Blue Nights, 2011) mi pare quanto mai coerente per introdurre un testo che prende vita esso stesso da un ricordo. Un’amicizia importante, profonda, che fa leva su una passione condivisa, la musica e si protrae negli anni dell’adolescenza fino all’età adulta per poi interrompersi, bruscamente, a causa di una malattia impietosa.

Il lutto improvviso, lo sconforto per la perdita, l’incapacità di parlarne persino alle persone più care e da qui l’esigenza di stringere i denti. Lasciar andare il fardello, ma come? Attraverso l’unico modo possibile, accendere il computer mezz’ora ogni sera o poco più, farsi forza e costanza, illuminare la voragine della propria solitudine con la parola scritta, dando forma a un nuovo verbo, il quarto, ad aggiungersi a quelli suggeriti dall’autrice statunitense, forse il più importante: “accettare”, in primis, il ricordo e poi, lentamente, coraggiosamente, il dolore.

Simone, l’amico di gioventù, un rocker nato, sensibile, con la mano capace e l’orecchio allenato. A Simone piacevano le canzoni semplici, gli amici sinceri, come Martino e i locali alla mano, come il Patchanka, ritrovo di bevute e concerti a pochi chilometri da Ferrara, in quella terra di mezzo sospesa tra la nebbia che sale dall’argine del Po e i sogni scalpitanti di un ragazzo di provincia.

È da questo palcoscenico che prende vita il romanzo, dal racconto-ricordo di quell’ultima serata di saluti a Simone e gli amici più cari, prima del trasferimento dell’autore a Torino, “la scimmia più orgogliosa” – così lo chiamavano -, per l’inizio della sua una nuova vita dedita alla scrittura. L’autore sceglie questa serata spartiacque per iniziare a raccontarci la storia della sua amicizia più importante, l’ultimo concerto assieme, la notte in cui tutto cambiò per sempre, forse proprio a voler sottolineare quanto la distanza intercorsa da quel momento in avanti, tutti gli anni e i chilometri accatastati freneticamente sulle loro esistenze, non siano stati sufficienti ad affievolire quel legame che negli anni non ha perso la sua forza.

«A me veniva da pensare che forse, a dispetto di ciò che credevamo, anche la vita che stava per srotolarsi davanti ai nostri occhi avrebbe avuto quella forma, non un rettilineo ma un cerchio, e senza rendercene conto avremmo continuato a girare in tondo, a morderci la coda, percorrendo sempre le stesse strade, rincorrendo gli stessi sogni, scappando dalle stesse paure.»

L’annuncio della malattia, il prima, il dopo, il trasferimento a Torino, la nascita della figlia, i viaggi all’estero, il concerto del Boss a Firenze e gli studi sulla presidenza di Barack Obama, il testo alterna memorie, lettere, confessioni, sedute di terapia, email, SMS, citazioni, squarci di presente e aneddoti dal passato, tutto assieme, in una danza scomposta che può apparire casuale ma da cui invece traspare l’esigenza dell’autore di raccontarsi e raccontarci nel modo più spontaneo, senza doversi affidare a nessun artificio narrativo, abbandonandosi totalmente e incondizionatamente alle istantanee riemerse nell’atto del ricordo.

La sensazione durante la lettura è quella di essere accolti in uno spazio intimo, personale, la mente dell’autore, appunto, che in un atto di estrema fiducia, nel testo abbatte ogni argine, arrendendosi completamente a un flusso di coscienza che non si fa scrupolo di condividerci anche le sue paure e insicurezze più profonde.

Il testo muta la sua forma di continuo, al ricordo di Simone si frappone l’esperienza come direttore della scuola di scrittura di Torino. Tra aneddoti e incontri con figure di spicco del panorama letterario, non solo nazionale, Gozzi si interroga più volte sulla funzione della scrittura, sul ruolo degli scrittori e in questa riflessione-dialogo-confessione traspare una limpidezza di fondo che coinvolge il lettore in prima persona.

Non c’è traccia di commiserazione o invito alla lacrima facile in queste pagine, l’epifania si compie nell’atto del triplice racconto (alla figlia, alla psicoanalista, a Simone), immedesimandosi nel protagonista e diventando noi stessi personaggi chiave di quei frammenti, così cari all’autore che, anche trasposti su carta, non perdono un briciolo della loro intensità.

Tra un sorriso e un magone trattenuto, siamo lì con lui, con loro, sui sedili di un’auto scassata, la sera della “sua prima iniziazione” alla Festa dell’Unità di paese, quando Simone pronunciò per la prima volta quella fatidica frase “Ti faccio sentire un pezzo”, alzando il volume della radio (rigorosamente in numero pari) e mandando quella traccia che cambiò il destino e la sensibilità, non solo musicale, di due vite intere.

«E il sound era nuovo. Era energia calda, luminosa. Non era folk e non era rock, non era soul e non era R&B. Non sapevo cosa fosse, però mi piaceva. Svegliati, sembrava dirmi, la vita è ora!»

Che sia la fuga da un acquazzone nel mezzo di un concerto o il resoconto di una delle lezioni di scrittura che l’autore ha tenuto all’interno dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna, si evince costantemente, nell’eloquio di Gozzi, l’esigenza di “aprire una porta diversa”, riavvolgendo la sequenza temporale, rallentando e mettendo a fuoco, fotogramma dopo fotogramma, l’esperienza di una vita densa di sensazioni contrastanti (il dolore per la perdita, la nostalgia per le esperienze condivise, la rabbia verso l’incedere della malattia, le nuove responsabilità subentrate con la scuola e la famiglia) che può trovare la propria completa catarsi, soltanto nell’atto della scrittura.

«Penso che il significato di una storia sia più grande della somma dei fatti che la compongono. E quel sovrappiù appartiene a noi, anche se molto spesso non lo sappiamo ancora, quando iniziamo a scrivere.»

Non di solo memoir qui si parla e neppure di un testo non-fiction, l’opera di Martino Gozzi gioca con il genere per dar vita a un alfabeto emotivo spontaneo, inedito, mai pretenzioso, ricco di riferimenti a un mondo tanto complesso quanto affascinante come quello della scrittura come forma di riscatto, guarigione, superamento dell’ostacolo più grande.

Ci sono opere che, attraverso il racconto di un dolore personale, hanno la capacità di regalarci squarci di felicità condivisa. Passata la pioggia si scorge la possibilità di un orizzonte inedito, in cui il fardello della perdita si fa terreno di accoglienza per nuove forme di vita. Occhi eternamente giovani, capaci di lasciarsi incantare dal panorama che scorre veloce dal finestrino con l’innocenza di chi è appena venuto al mondo e davanti all’ingiustizia della perdita ha solo una risposta, forse l’unica: “fortunati noi che siamo vivi”.

Stefano Bonazzi

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Il libro della pioggia

Martino Gozzi

Bompiani

17,00 euro — 185 pagine

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