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Mike Jay anteprima. Mescalina

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Mike Jay è un famoso scrittore che si occupa da sempre di storia della scienza, della psichiatria e delle sostanze psicotrope. Ha scritto numerosi libri, tra cui quello che è di gran lunga il miglior studio sul protossido d’azoto (The Atmosphere of Heaven). Ha anche scritto l’unico libro sull’antica bevanda rituale vedica: la soma (The Blue Tide).

Oggi è in libreria con Mescalina, Storia globale della prima sostanza psichedelica, (Utet 2023, pp. 334, € 22 con traduzione di Vittorio Ambrosio).

Mescalina è il culmine delle peregrinazioni di una vita negli avamposti più remoti della storia medica e scientifica.

La mescalina è un alcaloide psichedelico naturale, noto per i potenti effetti allucinogeni usato per migliaia di anni dalle popolazioni indigene delle Americhe.

Deriva dal cactus peyote e da altri membri della famiglia dei cactus, è stata sintetizzata per la prima volta in laboratorio all’inizio del XX secolo e divenne famosa con il resoconto di Aldous Huxley in Le porte della percezione (1954).

Indimenticabile è il resoconto di Hunter S. Thompson sulle sue esperienze con ” il malvagio succo di cactus” in Paura e disgusto a Las Vegas (1971)): “quando si ritrovò con un volo per Denver da prendere e la riserva di droghe vuota, eccetto «una grossa capsula [a rilascio graduale] di mescalina e “speed”». Persino agli occhi di un farmacologo di strada esperto come lui quella pillola era un mistero: «Non conosco il rapporto con cui sono state miscelate, o che tipo di speed abbiano aggiunto alla mescalina»”.

Quello di Jay è un resoconto estremamente ricco di sfumature. Il suo obiettivo è studiare gli usi e gli effetti della mescalina nei suoi numerosi e diversi contesti storici e culturali.

La modernità occidentale, osserva, si è spesso concentrata sulla natura delle visioni di mescalina, attribuendo loro significati neurologici, letterari, occulti, psicodinamici, estetici e spirituali, mentre le culture indigene hanno teso a considerare le visioni come di interesse meramente periferico, rispetto all’importanza dei rituali e delle cerimonie che migliorano la vita.

“La distinzione tra l’approccio moderno e l’approccio tradizionale alla mescalina”, osserva l’autore, “ricalca da vicino, anche se non in maniera del tutto precisa, quella tra la mescalina pura, prodotta nei laboratori del xix secolo, e le sue fonti naturali: due famiglie di cactus, il peyote del Messico e il San Pedro delle Ande. “.

Mentre l’occidente ha cercato di comprenderlo senza riuscirci fino in fondo, nei suoi luoghi di origine, il peyote conserva non solo l’effetto psichedelico, ma anche l’aspetto più vivo e indomabile dell’essenza divina.

Carlo Tortarolo

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Un luminoso mattino di maggio

Un luminoso mattino di maggio» del 1953, nella sua casa di Hollywood Hills, Aldous Huxley inghiottì 400 milligrammi di cristalli di solfato di mescalina sciolti nell’acqua, per poi descrivere ciò che aveva vissuto nel saggio Le porte della percezione, e facendo così conoscere la mescalina in tutto il mondo. Huxley parlò per la prima volta del suo trip in una lettera al suo editor della Chatto & Windus: «È indubbiamente l’esperienza più straordinaria e significativa che gli esseri umani possano fare al di qua della Visione Beatifica». Ai suoi lettori, il celebre scrittore britannico scrisse di aver osservato «ciò che Adamo aveva visto la mattina della sua creazione: il miracolo, momento per momento, dell’esistenza nuda». Le parole sembravano non bastare, così Huxley e Humphry Osmond – lo psichiatra che gli aveva procurato la boccetta di mescalina e aveva organizzato l’esperimento – si scambiarono alcune lettere in cui proposero di coniare un nuovo termine in grado di descrivere l’azione di quella sostanza e del suo “cugino” sintetico appena scoperto, l’LSD. Huxley consultò il vocabolario di greco antico redatto da Liddell e Scott in cerca di radici che potessero esprimere il “rendere visibile, manifesta” la psiche, e alla fine suggerì parole come «faneropsichico», «psicofano» o «fanerotimo». Osmond rispose con «psichedelico». Secondo Huxley la definizione corretta sarebbe stata «psicodelico», e per tutta la vita continuò a usare questo termine, ma fu la versione di Osmond ad avere il sopravvento.

A rileggerlo oggi, sembra davvero improbabile che Le porte della percezione abbia innescato la rivoluzione psichedelica che seguì di lì a poco; del resto, la controcultura degli anni sessanta si è rifatta raramente al canone estetico solenne del saggio di Huxley – che cita Bernini, Watteau, Vermeer – o alle sue astrazioni metafisiche espresse rigorosamente in maiuscolo («Mente Liberata», «Istigkeit», «Dharma-Body», «il Vuoto», «la Natura delle Cose»), e il passaggio ripreso con più interesse nel decennio successivo alla pubblicazione del libro fu quello in cui l’autore descriveva rapito le pieghe dei suoi pantaloni grigi di flanella. Quando uscì nel 1954, tuttavia, il libro si fece notare per due grandi proclami: uno sul futuro della mescalina e uno sul suo passato. Il primo annuncio fu quello di una sensazionale scoperta scientifica: il «fatto nuovo e forse altamente significativo» che la mescalina avrebbe potuto rivelare la causa della schizofrenia, e magari anche il modo di curarla. Il secondo fu l’affermazione di Huxley secondo cui quella sostanza era in grado di spalancare dimensioni della mente rimaste inesplorate fino a quel momento: «Quanti filosofi, quanti teologi, quanti educatori di professione hanno avuto la curiosità di aprire queste Brecce nel Muro? La risposta, per tutti gli scopi pratici, è Nessuno».

Al momento della pubblicazione del saggio, la mescalina era già un tema caldo della ricerca psichiatrica e biomedica. Tra il 1953 e il 1954 i lettori di “Time” e “Newsweek” avevano avuto modo di scoprire l’ipotesi sulle cause della schizofrenia proposta da Humphry Osmond e John Smythies, su cui si basa la prima affermazione di Huxley, ma Le porte della percezione garantì la fama definitiva alla mescalina. Il “New Yorker” dedicò una decina di pagine a un lungo articolo sui poteri curativi del cactus noto come peyote, dal quale in origine era stata estratta la mescalina, e sulle cerimonie dei nativi americani che si sviluppavano intorno a questa pianta. Mentre Huxley pubblicava saggi, articoli e interviste descrivendo una società in cui le droghe psichedeliche sarebbero state usate per raggiungere l’illuminazione spirituale, l’artista e poeta francese Henri Michaux dava alle stampe la prima delle sue estenuanti indagini sugli effetti della mescalina sulla coscienza e la creatività; l’antropologo James Sydney Slotkin scriveva il suo acclamato saggio etnografico sull’utilizzo del peyote tra i nativi; e i pionieri della cultura delle droghe che stava per esplodere, tra cui William Burroughs e Allen Ginsberg, iniziavano ad aggiungere il peyote alla loro “dieta” a base di marijuana, eroina e benzedrina. All’improvviso la mescalina era dappertutto.

In aggiunta alla mescalina e all’LSD, una copertina del 1957 della rivista “Life” portò alla ribalta una nuova droga psichedelica. Il banchiere appassionato di etnobotanica Gordon Wasson aveva individuato una comunità tribale del Messico che ancora consumava funghi allucinogeni secondo l’antica tradizione, e nel 1958 Albert Hofmann, il chimico che aveva sintetizzato l’LSD, riuscì a isolare il principio attivo di questi funghi e lo chiamò psilocibina. Il numero di “Life” che descriveva il viaggio di Wasson «alla ricerca del fungo magico» era la prova che i membri più curiosi della società stavano già sperimentando per conto loro la nuova avventura psichedelica. Secondo una lettera pubblicata su quello stesso numero e firmata da una tale Jane Ross, il viaggio di Wasson attraverso le montagne dell’Oaxaca era stato una fatica inutile: «Sono già tre anni che ho visioni allucinatorie accompagnate da sospensione dello spazio e disgregazione del tempo, senza muovermi dal mio appartamento di New York». La donna spiegava che, dopo aver letto Le porte della percezione, era rimasta incuriosita dalla mescalina e l’aveva acquistata nella sua forma naturale (ovvero la cima essiccata del cactus peyote) da un fornitore texano che spediva per posta cento “bottoni” per otto dollari. «Di solito ci vogliono circa quattro “bottoni” a persona per avere delle visioni », scrisse. William Burroughs aveva già trovato quello stesso fornitore, e nel giro di tre anni il peyote arrivò a essere venduto liberamente nei locali più bohémien di Lower Manhattan.

Tuttavia, all’epoca qualsiasi acquirente determinato sarebbe riuscito a procurarsi con relativa facilità anche la mescalina pura, per “scopi scientifici”: bastava fingere di avere un dottorato o scarabocchiare una lettera di raccomandazione da parte di qualche università. Mio zio Peter non aveva né l’uno né l’altra quando, dopo aver letto Le porte della percezione, si presentò agli uffici del fornitore chimico Aldrich, appena fuori Londra, e come se niente fosse chiese un po’ di mescalina. «Ci hanno detto di fare attenzione a chi la forniamo», lo informò un assistente, poi gli domandò se fosse un medico. «Be’, sono un fisico», improvvisò zio Peter (che all’epoca lavorava per la Kodak). Tanto bastò a fargli acquistare mezzo chilo di mescalina, equivalente a più di mille dosi: per qualche tempo l’avanguardia beatnik di Soho e della costa del Sussex non sarebbe stata a corto di psichedelici.

I primi appassionati erano pochi e sparpagliati per il mondo, ma seguire le loro tracce aiuta a farsi un’idea dei più svariati interessi che presto sarebbero stati inglobati sotto l’etichetta di “psichedelia”. John Smythies, il collaboratore di Osmond, si era avvicinato alla mescalina spinto dal suo interesse per le esperienze mistiche e paranormali, e nel 1952 fornì qualche dose alla psichiatra e ricercatrice britannica Rosalind Heywood, la quale ebbe però un’esperienza del tutto diversa da quella di Huxley: «Per lui il mondo esterno si è trasfigurato, mentre per me è diventato incredibilmente scialbo e noioso. La mia coscienza è volata a ripararsi in un magnifico mondo interiore». Dalle pagine del “Manchester Guardian”, Heywood invitò gli artisti a sperimentare le visioni offerte dalla mescalina, proposta colta al volo da Bryan Wynter, laureato alla Slade School of Fine Art di Londra, che conosceva già a memoria Le porte della percezione. Per dedicarsi ai suoi esperimenti Wynter si rifugiò nel suo cottage nella zona più remota della Cornovaglia e, dal 1956 in poi, la mescalina ispirò quella che lui stesso definì la sua «nuova coscienza», un percorso artistico – composto da dipinti astratti dominati da un profondo senso di inquietudine – che aveva l’obiettivo di fissare su tela «il momento in cui l’occhio guarda il mondo che non ha ancora riconosciuto».

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Nel corso degli anni sessanta – insieme alla prima corsa in bicicletta che Albert Hofmann fece nel 1943 sotto l’effetto dell’lsd – il luminoso mattino di maggio di Aldous Huxley diventò l’esperienza fondante dell’era della psichedelia. Eppure, i due grandi proclami con cui Huxley aveva annunciato al mondo l’avvento della mescalina erano già passati in secondo piano. La tesi secondo cui la schizofrenia fosse causata da una neurotossina collegata alla mescalina fu ben presto dimenticata, così come molte delle altre teorie scientifiche contenute negli ultimi scritti dell’autore. Negli anni successivi si fece largo l’ipotesi – basata sullo studio degli effetti di nuovi farmaci come la clorpromazina – che la schizofrenia fosse legata alla dopamina, ma ancora oggi – tanto quanto nel 1954 – siamo lontani dall’individuare una causa e una cura chimica per questo disturbo.

La seconda affermazione di Huxley, poi, secondo cui gli stati di coscienza ai quali dava accesso la mescalina erano del tutto nuovi e inesplorati, ai lettori attenti doveva sembrare strana già all’epoca. Era chiaro che l’autore avesse studiato molta della letteratura disponibile sull’argomento: già nella prima pagina delle Porte della percezione sono infatti citate diverse descrizioni farmacologiche, mediche e letterarie degli effetti della mescalina vecchie anche di cinquant’anni, come gli scritti del xix secolo di Louis Lewin e gli esperimenti pionieristici del neurologo Silas Weir Mitchell e dello psicologo di fin de siècle Havelock Ellis. E nel resto del libro si racconta la storia dell’utilizzo della mescalina da parte delle tribù di nativi nell’arco di cinque secoli, dal Messico preispanico fino alla contemporanea Chiesa Nativa Americana.

L’influenza più diretta sembra essere stata quella di Havelock Ellis, il cui resoconto del 1898 sulla propria esperienza con la mescalina si apre in maniera simile a quello che Huxley avrebbe scritto mezzo secolo dopo, facendo risalire i primi impieghi della sostanza all’antico Messico e adottando una trovata letteraria che mescola lo sguardo distaccato dello scienziato all’intimità del racconto soggettivo: «Un venerdì santo mi ritrovai tutto solo nelle silenziose stanze nel quartiere di Temple che occupo quando mi trovo a Londra, e pensai che fosse l’occasione giusta per un esperimento personale».

Il nucleo dell’articolo di Ellis, così come quello del libro di Huxley, è un’abbacinante performance estetica in cui gli effetti del peyote (dal quale a quell’epoca la mescalina stava per essere isolata) vengono paragonati a una miriade di riferimenti artistici, dall’architettura maori ai dipinti di Claude Monet. E proprio come Huxley, l’autore chiude il saggio con un manifesto sulle possibilità di trasformazione che la droga offre all’individuo e, in senso più ampio, alla società. Ellis prevede che «il poeta preferito dei bevitori di mescal sarà di certo Wordsworth», la cui opera condivideva con la droga il potere di rivestire di un’aura incantata anche l’oggetto più umile. La poesia di Wordsworth viene citata due volte anche da Huxley come esempio della possibilità di percepire, in un semplice tavolo o in una siepe, «il dono senza prezzo di una nuova penetrazione diretta nella stessa Natura delle Cose».

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