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Nadezhda, il destino dell’umanità

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Fragile, 2021
Courtesy Pier Paolo Curti

Un giorno Luca mi raccontò una storia.

Si trattava dei quella di un poeta dal nome complicato.

Un grande della poesia imprigionato dal più grande dittatore di uno dei più forti regimi in nome della più potente ideologia che sia mai esistita.

Vituperato, incarcerato, obbligato ai lavori forzati, esiliato e maltrattato a seguito di un testo che si rivolgeva direttamente contro al Regime. Denunciato e condannato gli fu salvata la vita grazie all’intervento personale di un noto filosofo marxista e così, l’uomo d’acciaio, decise di risparmiarlo.

Nonostante qualsiasi pena gli venisse imposta, questo non smise di fare poesia. Scrivendo dove poteva, a volte fogli, poi pezzettini di carta ed infine affidando i versi alla memoria di Nadezhda, la moglie.

Comprai dei libri e li lessi.

Ammetto che di poesia non so molto, e non conoscendo il russo son costretto a leggere solo traduzioni. Ma mi colpí profondamente. Non mi sento in grado di parlarne e non ne parlo, meglio che ognuno se lo legga in privato.

Poi rilessi la storia e quella storia rimase inchiodata nel mio cervello. Per qualche mese fui spettatore di un fenomeno ossessivo: il pensiero tornava sempre lì nei momenti più assurdi e quando meno me lo aspettavo. E così varie volte al giorno, giorno dopo giorno, per settimane, mesi.

La mia mente costruiva una immagine chiarissima di un’uomo di profilo ed in controluce. Era come se stesse all’interno di una stanza dalle pareti di argilla in penombra. La schiena incurvata, la pelle scura e tesa come quella di capra di un tamburo ed allo stesso tempo lacera, consumata e madida di sudore. Sussurrava a qualcuno che sapevo essere lì ma non potevo vedere.

Beninteso, ero cosciente che quella fisionomia non apparteneva al poeta per le foto che avevo visto pubblicate, eppure qualcosa in me aveva bisogno di liberare quel fatto dal momento storico e renderlo universale. Che sia questa la rivoluzione dell’arte?

E poi, di colpo, l’attenzione andava a quella persona che ascoltava, nascosta dal buio della stanza ed incoronata dal silenzio. Quell’essere incredibile che offriva il suo corpo, il suo amore, la sua passione per ricevere delle parole, conservarle nello scrigno della memoria per il solo fine di poterle ritrasmettere. La immagino uscire dalla stanza china, con gli occhi socchiusi senza dire nulla, camminare a passi corti e rapidi, affrettandosi per poter trascrivere quel sussurro prima che venisse perso. E chissà quanto ha perso o travisato. E chissà il senso di colpa. Eppure se oggi possiamo leggere le opere di Ósip Mandelshtam é grazie a lei.

Non so se ce lo meritiamo, lo dico con sincerità, non so se ci meritiamo la sua poesia allo stesso modo che dubito profondamente che ci meritiamo le opere immense che ci hanno lasciato alcuni grandi artisti nella storia e che usiamo come attrazioni da circo. Opere che riusciamo a vedere solo se adornate da effetti speciali, musiche o proiezioni luminose.

Io sicuramente non merito di aver visto quel che ho visto perché so di non averci dedicato ancora il tempo che avrei dovuto, l’amore e la passione necessaria.

Però quelle opere, quelle parole sono qui! A darci la possibilità di capire qualcosa in più prima che la desertificazione in atto non lasci più germogliare nulla, prima che le varie tempeste di sabbia “culturale” coprano le ultime oasi del nostro cuore.

Insomma l’arte é liberà di dire fare ed essere, é quel luogo in cui uno non può barare. Appena bari l’arte ti ripudia anche se, nel mentre, il mondo ti incorona. L’arte é quella cosa che non puoi smettere di fare nemmeno se ti tolgono l’aria che respiri.

Non troppi anni fa, anche se a noi sembra una eternità, c’erano persone come Osip disposte ad accettare tutto, l’umiliazione, la violenza, la prigionia e la morte e persone come Nadezhda che credevano così tanto nel valore della parola detta in quanto riverbero del senso dell’esistenza, che erano disposte a farsi strumento in maniera che quella parola ci potesse arrivare.

Mi chiedo se anche noi saremmo capaci di una simile grandezza.

Non come artisti, ma come esseri umani.

Fragile, 2021
Courtesy Pier Paolo Curti

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