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Bianciardi normalista I

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No, non mi accoderò alle laudationes Luciani Bianciardi, anzi a vaccino tengo normalmente in vista Il padrone di Edo, uscito nei primi anni 60 a ridosso de La vita agra, da cui sugli stessi temi (industria culturale, mondo editoriale) si distanzia di parecchie lunghezze. Ma la distanza mia dal Biancia si raccorcia fin quasi a scomparire al sol pensiero che Grosseto, mezzo secolo scarso dopo, dette i natali a Massimiliano Parente…

E dunque: do per scontato tutto ciò che il lettore può comodamente trovare in wikipedia o altrove in rete, e mi limito all’essenziale: direttore dal 1953 della grossetana Biblioteca Chelliana, Luciano chiamò più intellettuali a tenere conferenze, e tra questi Delio Cantimori, in un frangente tale da valorizzare del conferenziere, oltre che l’immenso sapere storiografico da cui alla Normale di Pisa subito dopo guerra pur egli aveva attinto, la tempra del militante – parlo dei giorni successivi alle elezioni politiche del 7 giugno 1953, che segnarono la sconfitta della Legge Truffa grazie all’apporto determinante di Unità Popolare, la formazione creata ad hoc da Piero Calamandrei e Ferruccio Parri. Il 18 giugno appunto, l’ex-azionista Bianciardi scrive a Delio, comunista:

Caro professore, / ho fissato per Lei due camere all’albergo BASTIANI, ch’è distante dal Liceo non più di duecento metri. / Il sabato non ci sono servizi d’autobus da Firenze: così mi dicono all’agenzia turistica. / Se sapessi l’ora del Suo arrivo sarei ad attenderla alla stazione: ci dovrebbero essere un paio di treni comodi e diretti, senza trasbordi. / Sono molto contento, e per più ragioni, che Lei venga qua. Spero che staremo insieme, con amici comuni, vecchi e nuovi. / Io sto lavorando molto, e son ancora stanco della campagna elettorale: sa che ho fatto ben 13 comizi per ‘Unità popolare’? / In attesa di rivederla, La saluto cordialmente / Luciano Bianciardi.

Esattamente un anno dopo, Biancia entrava alle dipendenze di Giangio Feltrinelli che, rilevata dal Pci la Cooperativa del libro popolare, stava per fondare la sua propria casa editrice. Così l’8 settembre 1954 da Milano scrive a Cantimori:

Caro professore, / rispondo con molto ritardo alla Sua lettera del 31 luglio: me ne scuso, ma creda che non è stata mia colpa. Il mese di agosto siamo stati in ferie (io a Grosseto e per pochi giorni a Viareggio, per il premio) poi abbiamo dovuto traslocare, e siamo ora nella nuova sede (molto bella e lucida) a via Fatebenefratelli 15. / Al mio posto di Grosseto per il momento non è andato nessuno, ma hanno intenzione di bandire presto un concorso regolare. Fra le candidature possibili si sta profilando quella della dott. Luciana Marchetti, che Lei conosce. / Debbo dirLe che mi fa troppo onore attribuendomi addirittura la direzione redazionale. No, la verità è che sono soltanto uno dei redattori. Le faccio un quadro del nostro ‘organico’: / Giangiacomo Feltrinelli, editore; Fabrizio Onori, direttore; Adolfo Ochetto, direttore amministrativo; Luigi Diemoz, capo redattore; Valerio Riva, Giampiero Brega, Libera Venturini ed io  redattori; Renata Cambiagli, Giuliana Brogli segretarie. Ecco tutto. / Il lavoro, come Le ho scritto, mi piace; la città un po’ meno, ma mi son promesso di rinunciare alla banale polemica che sempre, noi ‘peninsulari’, amiamo prendere contro questi ‘continentali’. Non è giusto, Le pare? Ed oltretutto è sterile. / Mi dispiace, invece, che almeno per il momento non sia possibile lavorare con Lei, per Lei. Mi creda, non sto facendo la parte del funzionario editoriale. Io conservo un caro ricordo di Lei, che è stato sempre un maestro, per me, in tutti i sensi. Per questo ho fiducia che ci incontreremo ancora, sul lavoro. / Vedo spesso Franco Ferri e Franco Della Peruta, e parliamo di Lei. Anche ieri sera, per esempio. / Mia moglie (che purtroppo è sempre a Grosseto) ricambia i saluti, graditissimi, anche per la signora Cantimori. / La saluto, caro professore, con affetto sincero / Il Suo / Luciano Bianciardi.

Strana la vita, mentre il mittente pugnava con i criptostalinisti della casa editrice, Cantimori faceva uguale con quelli della Fondazione: ci avrebbe pensato Giangio, a sistemarli mesi dopo entrambi. E difatti il 31 maggio 1960:

Caro professore, / sì, sono stato io a farle mandare il libro sulla spedizione dei Mille [Da Quarto a Torino, Feltrinelli]. Ma ora il suo dubbio ne fa nascere uno a me: cioè che quelli dell’ufficio-stampa feltrinelliano abbiano spedito le copie a casaccio. Infatti in quella destinata a lei io avevo fatto una dedica, nella prima pagina bianca. Speriamo che il guaio non sia enorme. La ringrazio dell’interessamento per le mie cosette. Il racconto lungo satirico non uscirà da Feltrinelli, ma da Bompiani, a giorni. Si intitola L’integrazione, ed è la storia di un fallimento milanese, nei gorghi dell’industria della cultura. Se ci riesco, gliene faccio mandare una copia; ma non sarà facile, perché quella antica casa editrice va famosa per la sua tirchieria. / Qua le cose, naturalmente, vanno molto male: io lavoro per Feltrinelli, ma non da lui. Sto a casa e traduco freneticamente, e sono stanco. Mi ricordo sempre di lei, specialmente quando passiamo qualche serata con l’amico mio Luciano Cafagna, anche lui esiliato a Milano. La saluto con molto affetto. / Luciano Bianciardi.

E infine, da Sant’Anna di Rapallo dove s’era appena trasferito, il 12 dicembre 1964:

Caro professore, / il ritardo della mia risposta non è per cattiva volontà. Vede, io ormai sto a Milano meno che posso. Coi soldi che ho guadagnato dal libro [La vita agra], ho comperato un appartamento qui vicino a Rapallo, al piede delle colline, e mi ci trovo parecchio bene. Faccio un salto su nella capitale morale, ogni tanto, anzi meno che posso, e poi ritorno qua, dove lavoro, passeggio, e ho giornate lunghissime. / Ma veniamo al dunque. Già altri mi avevano chiesto di Stanislao Bianciardi . No, purtroppo non è mio parente. Gli antenati miei suoi coetanei erano ancora a Siena, e tenevano un caffè: poi uno dei figli diventò medico, venne a condotta nelle Maremme, e ci morì giovanissimo. / I Bianciardi di Ponticello sull’Amiata erano lì da prima, e se abbandonavano i campi, diventavano preti oppure riformatori religiosi. L’Amiata ne ha avuti parecchi, da Brindano [Bartolomeo Marosi di Petroio] al Santo Davide [Lazzaretti], perché l’Amiata, anche culturalmente, è un’isola, e non somiglia né al senese né al grossetano. Sa che esiste ancora una comunità giurisdavidica (si chiamano così) che segue i riti e gli insegnamenti del Lazzeretti? Tempo fa li andai a trovare: si battezzano a fuoco, hanno una specie di divisa, una volta ogni anno si radunano, alcuni fratelli sono in America, e così hanno trovato persino i soldi per pubblicare certi inediti di Davide (Il libro dei celesti fiori [1873], per esempio). / Ma ora mi accorgo di star insegnando la matematica a Gauss. Mi scusi. Anzi, già che ci sono, le confesserò il mio ultimo peccato. Non contento del libro su Garibaldi, ho scritto un romanzo sulla battaglia di Custoza [La battaglia soda, Rizzoli]. Peggio: l’ho scritto in prima persona, e con lo stile dei memorialisti del secondo Ottocento. Insomma, un falso Giuseppe Bandi, mio conterraneo. Se lei lo vuole, e se mi promette di non tirarmi le orecchie per l’impudenza, dopo, io glielo faccio mandare. / E ora la ringrazio tanto, di avermi ricordato, di ricordarmi, ma principalmente di non aver scordato mio padre, che era una persona perbene, ma sul serio. Anch’io mi ricordo di lei, caro professore, e le stringo affettuosamente la mano. Suo / Luciano Bianciardi.

Dal canto suo, lo stesso Cantimori dopo i fatti d’Ungheria s’era ritirato nel suo particulare, tornando a tempo pieno alla storia ereticale. Morirà nel 1966, il tempo per essere raggiunto da un’ultimissima lettera del suo ereticale allievo, l’11 marzo 1965:

“Caro professore, / la stampina è proprio bella, autentica e commovente con quello sbaglio di impressione. La farò incorniciare, anche per ricordo del mio professore che continua a dirsi vecchio per civetteria. / Non ci sono grosse novità, qua ai piedi dell’Appennino. Vado di rado a Milano, e ogni volta ne scappo con disgusto. Non ci so proprio stare, mi sembra tutto finto, oltre che brutto. Preferiscono [sic] la solitudine della mia famiglia, quaggiù. Ma ora la lascio. Troppo presto, lo so. Con la promessa di farmi vivo ancora, e presto. Mi vuol salutare la signora Emma? Ricordo la sua faccia pulita, e perciò rara. Affettuosamente / Luciano Bianciardi.

PS. Per chi s’interessi di epistolari e voglia approfondire la conoscenza dell’interlocutore, v. a mia cura Sapere aude! Il carteggio Sebastiano Timpanaro-Cantimori, in “Belfagor”, VI, 2009, e Il carteggio Cantimori-Giolitti, in “Italia contemporanea”, n. 265, 2011.

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