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D’amore, d’aMorgan e d’altre sciocchezze

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Leggendo alcune recensioni dell’ultimo libro di poesie di Morgan (Marco Castoldi), Parole d’aMorgan, uscito a fine 2022 per Baldini & Castoldi, mi aspettavo si riaccendessero certi piani sequenza di In the mood for love, inquadrature di tensioni amorose che si rivelano quadri manieristi, suggestioni musicali ed epifanie immaginifiche, una ricerca sulla coltivazione dell’assenza da emozionarmi e ancora musique avant tout chose in silenzi che agiscono sul corpo testuale come pause struggenti, sospiri inghiottiti, ma appena alzati gli occhi dal libro, mi sono trovato su una Cinquecento bianca, col primo piano della Signorina Silvani che dice “ah… anche poeta?”, sputando sullo specchietto. Anche Morgan poeta, appunto.

Non si capisce come mai quando un cantautore si toglie la stampella musicale e pubblica dei versi “nudi” (antecedente einaudiano: Lettere d’amore in frigo di Luciano Ligabue, 2006) i risultati siano così scadenti – palese che questi cantanti/cantautori non leggano poesia italiana dai tempi del liceo, con unica eccezione Jovanotti che, appassionato di poesia (anche) contemporanea e avendo bene in mente la differenza tra le due arti, pubblica un’antologia di poeti riconosciuti che lui ama (assieme a Nicola Crocetti, Poesia da spiaggia, Crocetti, 2022). D’altro canto, i poeti prestati alla musica, spesso, hanno dato risultati sbalorditivi per qualità testuale e ricerca, come conferma la collaborazione tra Roberti Roversi e Lucio Dalla. Già secoli prima, è stato Dante Alighieri non solo a differenziare la poesia destinata alla canzone o semplicemente da musicare, ma fu anche l’unico, in tutto lo Stilnovo, a usare il novenario perché il testo che aveva scritto era così bello da aver sostituito il testo destinato a una canzone (un’altra veste ch’altrui fu data) e che possiamo solo leggere, oggi, col titolo: Per una ghirlandetta.

La differenza tra canzone e poesia c’è; rarissimamente minima, impercettibile, deve poter funzionare anche senza eseguirla oralmente, men che meno con musica. Non è il caso del libro di Morgan. È un mistero come faccia un cantautore riconosciuto di 50 anni a scrivere come un liceale (di ottime letture ma di certo non baciato dal talento) al terzo anno di scuola e Parole d’aMorgan ha tutti i difetti di un libro costellato dai brufoli dell’adolescenza: metrica ingessata, stile posturale, il tema che ricalca puntellando il pronome IO, uso goffo dell’apocope in versi che non suonano, dalla stesura imbarazzante (“nobil gesto”, “mi sono avvicinato / per contattar la bocca”, “l’amor di miele d’api riportate”), letture – eccetto Franco Loi e l’ultimo Pavese, autore di cui non rielabora la litania anapestica, che sicuramente non ha compreso, ma solo il claim rimasto ai liceali: Verrà l’estate e avrà il tuo gusto – che arrivano sì e no al primo Montale e a un certo immaginario maudit ripreso dall’antologia celebre di Verlaine.

I versi sono pastosi, la sperimentazione viene relegata alla spazializzazione della poesia, ricalcando i Calligrammes di Apollinaire (uscito nel 1918); lo stile confuso, senza intenzione musicale e l’autore, che di solito si confonde con l’io lirico in un gioco sapiente di specchi, qua invece espone la sua presenza in ogni poesia – autore, ricordiamo, oltre che cantautore pluristrumentista e compositore, dirige anche orchestre di musicisti professionisti ma qui non riesce a dirigere e disporre un minimo dizionario colloquiale in versi. Forse non si è accorto che “sto vivendo una crisi e una crisi c’è sempre / quando qualcosa non va” è un distico perfetto per una veste elettronica però se si spegne la base, lo si esegue mentalmente, i versi cascano, come casca la maggior parte del libro, inciampando qua e là, con risultati comici anche quando l’autore esplicita una tragedia privata. Stile a parte, rimane l’immaginario, il contenuto, che passa dal revenge poetry all’aia la vita!, per proseguire con momenti di autoesaltazione infantile – manifesto di quest’ultima, una delle poesie più brutte del libro, anche se la competizione tendente al ribasso è spietata, Napoli: “Quando arrivo a Napoli / mi si arricciano le camicie / mi si svuotano le guance / a Napoli sono chiamato Maestro / e persino il vento non vede l’ora / che io l’ascolti perché lo trasformi / in cosa ferma e intatta / si pensa accartocciato nei miei occhi / e allora io mi allungo / di stormi filosofici / in forme galleggianti di rotondi / ricordi gonfi come spaventi neri / e piedi nudi in movimenti / asimmetrico superamento dello spazio / nell’adolescenza di una nuova / e consolante idea di morte / come velocissima natura / della mia vita pienamente depurata / da paura e solitudine”.

Ad aver collaborato al libro, con un commento in versi dall’andamento altalenante, Pasquale Panella, un altro grandissimo songwriter, qua in una prova poetica che ricalca la forma canzone ma non funziona: a tratti (involontariamente?) ironico, spesso kitsch, aggiunge rumore al rumore, in uno sposalizio cacofonico e dilettantistico che mi ha lasciato un grosso dubbio a libro letto e – purtroppo – riletto: cos’altro potevo comprare con i 16€ spesi per questa raccolta?

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