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Davide Orecchio. Qualcosa sulla terra

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L’ultima recensione dell’anno. Mancano due giorni alla fine del 2022 e sento sempre addosso un alone nostalgico, apocalittico, nei giorni che precedono il capodanno. Non è un caso ma una scelta voluta aver tenuto come ultima lettura questo “libretto” di Davide Orecchio (il termine è riduttivo solo per foliazione: una sessantina di pagine in tutto), anche in queste pagine mi è parso di avvertire quello stesso sentore di beffarda inevitabilità per qualcosa che ci sfugge di mano: la sensazione di far parte di un disegno superiore, il tiro di dadi di un Dio volubile a cui basta una svista o un semplice capriccio per portare una città alle fiamme o farci cadere in balìa di una “malattia che toglie il respiro”.

Una città in fiamme, dunque, una donna che si spegne nell’oblio di una vampata e gli occhi di un testimone, che si fa carico del suo ricordo.

«L’odore del fuoco che mi aveva svegliato germinava da tragedia che non avrei mai compatito se non, adesso, allora, annusandola a fatti compiuti. Una donna era anziana e si era fidata del sonno. Il fatto compiuto era la morte per rogo di una donna che non apparteneva ai pensieri del mondo. E il fumo della sua morte aveva leccato impudicamente gli intonaci. E la gente aveva gridato per strada».

Gilberto, che si risveglia in quella città pazza per l’odore del fuoco, metropoli senza nome ma dai tratti ben riconoscibili, Gilberto, pensionato da molto, un uomo che non dimentica di pagare le proprie bollette e che non usa le candele, Gilberto, la cui pensione basta appena per mantenere lui e il suo compagno felino, Alberto.

«Gilberto esisteva Alberto e Alberto esisteva Gilberto».

Torna spesso questo verbo, “esistere”, come a voler scandire, legare e definire anima e ritmo di questo testo breve ma granitico, nella sua impeccabile architettura.

Davide Orecchio si diverte con le strutture, i sintagmi, gli elenchi, sparge citazioni più o meno esplicite, dimostra ancora una volta di saper maneggiare la parola con la maestria di un artigiano che non ha sacrificato il cuore alla tecnica.

Il testo asseconda un moto perpetuo che sale e scende, ondeggiando sinuoso come quelle fiamme avide che non smettono di bruciare sullo sfondo della storia, cibandosi di rifiuti ammassati, oggetti scanditi da un occhio disincantato che renderebbe fiero Perec e le sue interminabili liste di “cose”.

Si, scende, appunto, in strada, attraverso le parole di un uomo che “ha già dato”, per poi risalire, dal girone più basso, con occhi nuovi. Gli occhi di Alberto e Lisa, occhi di esseri che esistono con l’incanto e l’incoscienza di un neonato. Occhi che non si fanno scrupolo di mettere a rischio la propria vita, sfidando un territorio sconosciuto, un branco di gabbiani affamati, alleandosi con la razza a loro più ostile come nella più classica delle fiabe, il tutto per tornare da loro, Bianca e Gilberto, i cari amati. Tornare a esistere, non come semplici animali ma come compagni imprescindibili, esistere in quanto relazioni.

«È vero che molta gente moriva. Sempre molta gente moriva. Ma c’era gente che morendo uccideva un po’ il mondo, e c’era gente che al contrario moriva in estraneità al sentimento del mondo».

Il guaio sarebbe lasciarsi ingannare dalla brevità. Procedere al ritmo serrato della fiaba, pensando a Qualcosa sulla terra come a una storia sulla povertà mescolata inestricabilmente all’immagine di fragili esistenze.

Il guaio sarebbe limitare tutto questo splendore a una semplice storia di edifici friabili e persone che se ne vanno, nel silenzio di una notte, per essersi fidati del proprio sonno. E invece c’è un mondo altro in queste sessanta pagine, un mondo i cui limiti possono essere superati concedendosi in toto allo stupore più autentico «è sempre bello affidarsi a una storia». Un mondo di poche parole, ciascuna di esse indispensabile.

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Qualcosa sulla terra

Davide Orecchio

Edizioni Industria & Letteratura

10,00 euro — 66 pagine

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