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Por ese amor. Intervista a Carmen Yáñez

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La poesia di Carmen Yáñez è un microcosmo limpido che non si osserva da lontano perché la sua parola è aratro che traccia solchi nella coscienza, è coinvolgente, palpitante, seducente, con i suoi intermittenti tagli riflessivi. Non è facile raccontare una vita da sopravvissuta di una generazione sacrificata , avere la forza e il coraggio di continuare a lottare per la giustizia sociale, fornendoci le coordinate di un mondo attraverso sottili linee melodiche ma la letteratura è, per fortuna, un’incredibile risorsa e può spalancare mondi che mettono alla prova la nostra capacità di giudizio. Il processo che porta alla costruzione della memoria è, in questa poeta cilena, profondamente personale, corporeo, ma è anche pratica collettiva legata al modo in cui riesce a condividere le perdite, i naufragi, non senza cullate nostalgie ma senza nessun risentimento. Ci porta al centro della sua esperienza concreta , del suo tempo, ricco di sequenze dominate, composite, calibrate, vissuto con l’unica paura di restare senza voce: Ho paura di restare senza voce /o conservarne solo un filo /nella mano vinta dello spazio./Nelle mie notti insonni/questa paura mi assale /e mi dico tremando/quali crimini atroci/accadrebbero congiuntivi/se la mia voce ammutolisse/e non potessi più raccontarlo!/Come se la daga nera/si avvicinasse alla gola/e mi mozzasse il grido necessario/per fugare le ombre ( da E se il silenzio, in Senza ritorno, Quaderni della fenice, Guanda,2020).

Incontro Carmen Yáñez a Casa della Poesia di Baronissi (Salerno), presidio culturale resistente nato 26 anni fa grazie a Sergio Iagulli e Raffaella Marzano che ospitano poeti internazionali curando incontri, pubblicazioni, progetti.

Nata nel 1952 a Santiago del Cile, nel 1971 Carmen aveva sposato Luis Sepúlveda ma due anni dopo, ed esattamente l’ 11 settembre 1973, il golpe di Pinochet e l’inizio della dittatura militare, avrebbe interrotto bruscamente quel loro profondo sodalizio giovanile fatto di battaglie politiche e sociali per i diritti civili (entrambi erano militanti socialisti durante il governo Allende). Sepúlveda, che faceva parte della guardia armata volontaria del presidente, verrà arrestato, torturato, costretto all’esilio. Stessa sorte toccherà a lei, sopravvissuta all’inferno, agli orrori e alle torture di Villa Grimaldi. Verrà ritrovata in una discarica, bendata con il nastro adesivo, da una coppia che viveva raccogliendo cartoni. Quello di Carmen è uno di quei casi in cui la biografia del poeta rischia di sopraffare il valore reale della sua poesia. (In www.potlatch.it/verso-casa-poeti-lontani-visti-da-vicino/giancarlo-cavallo-carmen-yanez-piccole-cose-grande-poesia/) L’attenzione del pubblico, infatti, viene focalizzata su quegli elementi che possono sembrare più vendibili (eh sì, l’essere scampata ai torturatori di Pinochet può fare audience, che tempi! – fino al paradosso di titoli di giornale che la presentano come “La moglie di Luis Sepúlveda” (cosa effettivamente vera, ma voi immaginereste il contrario “Il marito di Carmen Yáñez”?). Sarebbe un grave errore, oltre che una mancanza di rispetto per un lavoro che ha visto nel tempo venire alla luce tante sillogi pubblicate sia in spagnolo che in varie traduzioni (in Italia edite da Guanda). L’osservazione è profondamente vera , tenuto conto della complessità e della profondità della sua opera. Si consideri, inotre che Sepúlveda, scrittore molto amato in Italia, ha sperimentato diversi generi letterari , dalla cronaca al racconto, all’avventura, alla favola, alla poesia, con qualche incursione nel cinema; Yáñez invece è rimasta fedele alla sua unica vocazione, quella poetica, percorrendo i “tortuosi cammini della lirica”, legata al suo mondo denso d’ideali, sentimenti, simboli.

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A cinquant’anni dal golpe in Cile, intellettuali e scrittori hanno riacceso i riflettori su quell’11 settembre del ‘73 attraverso saggi, testimonianze, interventi, manifestazioni popolari e pubblicazioni. In questo spazio dialogico in cui si ritorna a parlare di un passato mai dimenticato, quali sono le opere pubblicate di recente che, secondo lei, operano una corretta rilettura del passato?

In questo fiorire di pubblicazioni, mi piace citare Las cenizas del cóndor di Fernando Butazzoni, la storia di una giovane uruguaiana che incontra un cileno che fa parte del MIR e che nel 1974 attraversa a piedi la cordigliera delle Ande, incinta di cinque mesi, per fuggire dall’esercito di Pinochet. Lo sfondo storico è lo sviluppo violento e militare elaborato dal Plan Condor e i golpe che seguirono in paesi come l’ Argentina, l’Uruguay, la Bolivia. Il titolo del romanzo, infatti, allude metaforicamente alle conseguenze che questo piano ha avuto per le nuove generazioni di latinoamericani e che esistono ancora in società pienamente democratiche. È un romanzo interessante perché lo scrittore ha condotto importanti ricerche su documenti rimasti secretati, specie per ciò che riguarda l’appoggio degli Stati Uniti a Pinochet. Non bisogna sottovalutare la portata mondiale che il golpe ha avuto, anche in Italia, condizionando inevitabilmente le strategie della sinistra.

L’enorme galleria di personaggi di Las cenizas del Còndor è costituita da persone reali, che hanno avuto anche una notevole visibilità. C’è qualcuno, tra quelli citati nel libro, che lei ha conosciuto personalmente?

Si, durante la lettura del libro, ho ricordato di aver incontrato in Svezia, nel campo di rifugiati dove arrivai grazie all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite, Antonio Viana Acosta . Era un esiliato come me, vittima della dittatura uruguaiana, catturato da un commando congiunto uruguayano-argentino nella sua casa di Buenos Aires e sottoposto a terribili torture. C’erano solo due cileni, invece, tra i rifugiati in transito. Era il 27 agosto del 1981 quando giunsi a Stoccolma e mi preparai a vivere in Svezia, insieme a mio figlio Carlos, la maggior parte del mio esilio mentre Luis, come tutti sanno, si rifugiò in Argentina, Bolivia, Perù, Ecuador, prima di stabilirsi in Germania. Tra le donne che finirono con me a Villa Grimaldi, invece, ho ritrovato solo Marcia, una compagna di cella, una militante del MIR, la sinistra rivoluzionaria. L’incontro avvenne in Italia, a Venezia, nel 1998 e tra qualche giorno ci rivedremo a Madrid. Attendo con gioia questo momento. Con lei c’è un rapporto speciale, un legame profondo. Delle altre compagne di cella non seppi mai il nome. Eravamo tutte proscritte e in clandestinità. Ritornando alle mie letture di questi giorni, un altro volume che ho trovato particolarmente interessante è la biografia di Salvador Allende scritta da Mario Amorós che ne traccia minuziosamente la traiettoria politica e ne delinea il profilo umano.

È anche per lei tempo di revisionismo e di rilettura del passato?

Non sono bastati questi cinquant’anni per sanare le ferite del passato. Non è una rilettura del passato, piuttosto una lettura alla luce del presente. Questo anniversario ci fa riflettere sul fatto che anche nel Cile di oggi il sostegno alla democrazia sia sempre più ridotto. Nel settembre del 2022 la maggioranza dei cileni ha respinto il testo costituzionale che avrebbe dovuto sostituire quello adottato durante il governo di Pinochet.

Ieri sera ho visto su Netflix il nuovo film di Pablo Larraín, vincitore alla Biennale Cinema di Venezia 2023 del Premio per la migliore sceneggiatura. È una satira horror che immagina Pinochet nei panni di un vampiro sanguinario. Il dittatore cileno non era mai stato raccontato così esplicitamente, come incarnazione del male assoluto. Io e Luis quella realtà l’abbiamo vissuta e chi, come noi, ha conosciuto l’esilio e ha dovuto ricostruire se stesso dopo aver perso tutto, non ha certo perdonato. Nel 1997, dopo esserci ritrovati, abbiamo deciso di vivere in Spagna, nelle Asturie, per non perdere la lingua materna come parte essenziale dell’identità. E abbiamo continuato a credere nella letteratura, quella che è stata poi la nostra successiva patria.

Nel prologo del suo libro Un amore fuori dal tempo La mia vita con Lucho, ( Guanda 2022), scritto a due anni di distanza dalla morte di Sepúlveda, sottolineando il valore della memoria, aggiunge: non bastano le storie per raccontare i chiaroscuri con cui i grandi eventi storici si confondono con le piccole cose […] ( cit., pag 11). Che potere può avere la letteratura, oggi, nel promuovere consapevolezza degli eventi storici, presa di coscienza politica?

Sono tante le ragioni per interpretare la realtà del mondo; tra queste c’è l’amore, benché ci sembri una ragione non sufficiente. È l’amore a guidare oggi la mia scrittura. La stesura di questo libro è stata faticosa ma mi ha aiutato ad elaborare il lutto, a preparare nuove fondamenta.

Yáñez è poeta della parola gentile e misurata anche quando parla di perdita, di sogni non realizzati, di sconfitte, di dolore, di paure ataviche, di uragani della vita. Entra con il suo consueto garbo nelle pieghe più profonde della storia cilena, la illumina come lucerna un bosco, e la parola scorre limpida come acqua tra sassi. In un sospiro è morto il mio paese […] . Ci hanno annientato quelle morti inutili/ i colpi infami alla grande dignità di un popolo […]. Te lo dico io dall’assurda vecchiaia della ferita,/ da queste ridicole lacrime annose,/ dalle pagine ingiallite di un delitto./ Te lo dico io (questi ultimi versi sono tratti dalla poesia Reinalda del Carmen Pereira). La sua storia s’intreccia a quella dello scrittore guerrigliero ma lei è una falena che sfida la fiamma, una bambina timida che cresce scoprendo la furia omicida e impara a scrivere con la lingua dell’esilio, diventando la donna che “solleva la polvere dell’oblio” e “sfida la gravità dei silenzi”. Questa è la nostra storia – scrive Yáñez , misurandosi , questa volta, con la scrittura in prosa , – abbiamo vissuto insieme gli anni della democrazia, anni felici guastati da una banda di folli malviventi che presero il potere nel giorno più nero del 1973 abbattendo il governo costituzionale, imprigionando i suoi funzionari, collaboratori e simpatizzanti per poi torturarli, farli sparire o giustiziarli senza un processo e senza concedergli il diritto di difendersi […]. L’orrore di quegli anni, testimoniato da migliaia e migliaia di vittime sopravvissute, fa venire i brividi ed è paragonabile ai grandi crimini contro l’umanità […]. (In Un amore fuori dal tempo, cit., pag.80).

Rossella Nicolò

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