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VERONICA TOMASSINI INEDITA. FOREVER – CAPITOLO 6

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La scuola nel piccolo Bronx

La volta si infilava nelle gratelle. Smettevamo di esibire una grazia, una delicatezza virginea, che ci vestiva in una divisa d’ordinanza, la smettevamo di colpo; dalle gratelle sospiravamo verso la volta, nella reciprocità di una congiunzione estatica. Le classi vociavano nell’aria ripiegata in brevi spazi, rincantucciata, sonnolenta. Le lezioni seguivano l’illogico metodismo che non avrebbe insegnato a vivere. Noi vivevamo, certo, estenuate dagli errori. O forse soccombevamo all’unico errore supremo, la vanità e il desiderio da avvoltolare nei giorni, non consumarlo, un desiderio astuto, non era la speranza, non la speranza caritatevole.

Cosa fosse oggi lo deduco dai fatti: era l’immanenza del vuoto, dispiegato sulle nostre teste come l’immenso cedevole mantello di un tetrarca severo, sotto cui ripararsi, nell’ingannevole mannaia, la mestizia dei luoghi vitrei, casermoni rovinati su cisposi seduti nella malinconia ottusa; fredda e similmente alla menzogna quando si mostra complice, disposta a cucire impossibili disperazioni, cucirle al petto. Il nostro sì aspettava, sfavillante, aspettava tutte le promesse.

Le attese sono promesse, di solito non mantenute. Per questo eravamo ragazze, frequentavamo la scuola nel piccolo Bronx. Dalle gratelle osservavamo fuori mostruose ordinarietà. Classi vocianti, dentro box. Animaletti in cattività. Abbaini digrignanti ipotetiche rivendicazioni: pareti che non franassero, bagni maleodoranti dove fumare una sigaretta di erba augurandosi di vivere un giorno davvero o crepare prima per sovversione, altrimenti detto bisognoso patetismo, miserevolezza d’accatto.

La scuola era il presidio svettante nel quartiere di vegliardi, peccatori, ceffi da svezzare ancora, ragazzini sulle vespe rombanti, spacciavano al mondo di loser, per vocazione, il rimedio ipnotico, il grondante tributo all’empietà, all’esosità brutale dell’inutile periferia. Le ragazze frequentavano la scuola nel piccolo Bronx.

Monica indossava vestiti Moschino pagati dal vecchio.

Veniva dal condominio peggiore, nel piccolo Bronx. Anche se la madre batteva aveva un suo orgoglioso perché da giocarsi alla fine. Farsi un cliente nella privatezza, in automobili con lussuosi accessori, in privé esclusivi, faceva meno senso. Fai meno schifo a scoparti a uno, diceva alla figlia, se la tappezzeria è di seta. Il baldacchino tralucente, il velo incantato scivolare sulle membra irrigidite, tese fino allo spasmo.

Non le parlava così forse. Le diceva forse molto meno, molto meno basta sempre a spiegare le cose.

Monica era schifata della vita nel quartiere e quando entrava nella scuola con le gratelle alle finestre, i suoi delicati piedini esitavano, quasi a schivare nella sua figura tutta intera la complessa infamità traducibile in una stanza, una voce lagnosa che didascalicamente elencava date, nelle urla altrove, adolescenti e ibride; negli schiamazzi di ambulanti berciare merce deteriore.

Poi però tornava la sera. Abbandonavamo la nostra miseria insolvibile, il patimento che d’un tratto diventava iniziazione a qualcosa. Vestivamo con abitini luccicanti, le scarpe con la punta, i tacchi da donna. Vestivamo una identità prossima al fuoco che brucia vanamente, tutte le sofferenze e gli assedi insolvibili, come le miserie. Brucia. Brucia. Senza purificare.

Il fuoco vano.

D’un tratto sembrava distante smisuratamente il nostro quartiere modesto, abitato da sfrontati senza gentilezza. La gentilezza. Quale balzello, invocato come una preghiera.

Arrivava la sera. La fila. Il night. Le luminarie della notte. Le libellule, fari caduti sull’asfalto, comete precipitate sul mondo senza presunzione.

Non lo salverai. Non ho salvato il mondo. E loro nemmeno. Le ragazze. È che certe volte la terrà è il cratere. Certe volte la terra da cui provieni è lo stigma. Tira su balzelli. Non leggerai: gentilezza.

Veniamo dalla terra dell’ineluttabilità. Da non barattare con altro. Con confinamenti vigliacchi. Implacabilità. Irrevocabilità.

No, nei lemmi proposti troverei un eroismo, una sollevazione dinamica, benché implicita.

Le ragazze erano eroiche, strette nei vestiti di lamé, crudeli nella notte con i fari caduti sull’asfalto. Fiori penduli. Corone che esplodono ad un battito dalla fioritura. Bisogna morire per esplodere nella fioritura. Il chicco di grano.

Le attese sono promesse che non si mantengono. Prima di entrare nella notte, guardavo i volti ottenebrati, in coda, profili indecisi, dove non riuscivo a riconoscere il mio amore.

Dentro gli anelli di fumo, fissavo segrete possibilità.

Mi sembrava persino di esser felice.

Dicevano che, tra me e Monica, vincevano le mie gambe.

Ma Monica era una donna. La invidiavo.

Non avere le tette era già una lotta di classe. Così posso affermare che nella mia muliebrità dimorasse la sovversione.

Il mio amore non c’era quasi mai.

Era elegante. Lo vidi una sera. Lo vidi. Sì.

Era fatto di eroina.

Lo so.

Cosa conta? Oggi. Cosa conta aver perso sempre. Nella supremazia delle distanze che chiamerai separazioni.

Aver perso. L’amore La speranza. Un libro. La vita? Sì?

La vita in un certo qual senso. Cosa fosse, la vita, in un certo qual senso, non bisognava chiederselo. Così fumavo, nella notte. I lampioni caduti sull’asfalto. Fiori penduli, corone di gloria, simili a peonie o crisantemi.

(continua)

Copyright © Veronica Tomassini.

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