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Anteprima. Fernando Gentilini. Tre volte a Gerusalemme

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Gerusalemme è una città come nessuna, su cui cadono più luoghi comuni che gocce d’acqua. Per questo presumo sia più facile entrarvi a occhi chiusi. Meglio, di certo, se guidati da qualcuno, uno straniero, che ci abbia vissuto tanto a lungo da non perdere l’orientamento, e che abbia la forza del distacco. Fernando Gentilini, diplomatico con un’esperienza ventennale in gestione di crisi internazionali è certamente l’uomo giusto. È stato in Afghanistan, in Kosovo, in Nord Africa. Inoltre possiede un’insospettabile sensibilità letteraria, una cultura umanistica che gli permette d’indossare il corpo altrui. Il suo lavoro è mettere pace, conoscere i motivi, indagare le ragioni degli altri, provare a farli sedere di fronte a un tavolo, aiutarli a capirsi. È un lavoro estenuante, complesso, che necessita di uno studio meticoloso e un po’ di fortuna. Come ci riesca, come ci si prepara per una missione davvero impossibile, tante volte, Gentilini prova a spiegarlo in un saggio irregolare, personale e coinvolgente dal titolo Tre volte a Gerusalemme, da domani in libreria con La Nave di Teseo, di cui presentiamo un estratto in anteprima.

Qualunque domanda sulla crisi Israelopalestinese qui trova risposta, qualunque perplessità dissipata. Leggendo finisce che a Gentilini gli si invidia la vita, non tanto per i viaggi, il prestigio, ma per la conoscenza che dai viaggi acquisisce, il contatto con la storia in divenire perché, da sempre, le sorti del pianeta si giocano sui tavoli della diplomazia e intorno a quei tavoli ci porta, ci permette di osservare. Per questo non è solo un libro interessante, ma utile. È un’occasione unica, per tanti versi rara. Non si tratta del classico trattato che possiamo usare come strumento di studio, è piuttosto la sua esperienza dentro la quale ci invita ad entrare. Qualunque conoscenza necessita di pazienza, una guida e di una strada. Gentilini costruisce la segnaletica, mostra il tracciato, lega il suo polso al nostro per costruire una catena dentro la città, attraverso i monumenti, i quartieri e le tante etnie che così difficilmente convivono senza integrarsi. Ci spiega la storia recente, come si conduce un trattato di pace, quali interessi vi ruotano intorno. Ci illustra le ragioni, i vizi, le permalosità, i pesi e le misure. Ci porta dentro le cancellerie, negli alberghi. Ci racconta le persone, i capi di stato, le posizioni e le ragioni dell’America, dell’Onu, dell’Unione Europea.

Ma soprattutto disegna una città polveriera, separata da una linea verde che non è solo simbolica; mistica più qualsiasi altra, bruciata da un sole cocente che affanna la ragione. La Gerusalemme di queste pagine pare la culla di ogni fanatismo, prostrata e inerme come il santo davanti a Dio.

Pierangelo Consoli

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Di seguito l’estratto in esclusiva da Tre volte a Gerusalemme.

La Linea Verde

Un confine che non si vede, nel senso che esiste solo sulle mappe, ma che anche un forestiero capisce immediatamente dov’è, poiché a seconda che ci si trovi da una parte o dall’altra, intorno cambia tutto: cambiano i vestiti delle persone, cambiano le targhe delle macchine, cambia il colore dei taxi, le insegne dei negozi, i cartelli della pubblicità, cambiano persino gli odori, le lingue che si sentono parlare sui marciapiedi, cambiano gli operatori di telefonia mobile, cambiano le radio, le canzoni, le televisioni, insomma a seconda che si stia al di qua o al di là della Linea Verde cambia l’intero tessuto urbano ed è come se le città fossero due anziché una sola (con buona pace di chi pensa che basti una legge per metterci una pezza).

A ovest orientarsi è facile, perché c’è ordine a sufficienza. Si può passeggiare sui marciapiedi, c’è la segnaletica stradale, ci sono ristoranti, negozi eleganti, gente in giro a ogni ora del giorno e della notte, insomma c’è la vita che scorre come in qualsiasi città del mondo. Durante le prime settimane avevo percorso la Hebron Road, scoprendo verso sud i quartieri di Baqa’a e la German Colony, con i loro viali alberati, le case di pietra bianca, la vecchia stazione con le gelaterie e la pista da ballo. Poi man mano mi ero spinto verso nord, nella zona commerciale di Melilla, con i negozi, le banche, le multinazionali, e poi le viuzze dalle parti di Jaffa Street, fino a Ben Yahuda e al mercato.

A est della Linea Verde è tutta un’altra cosa, come se della città vera fosse rimasto solo un involucro vuoto. Fa eccezione la Città Vecchia, dove prevale la dimensione turistica e religiosa; e fanno eccezione le strade a ridosso della Porta di Damasco come la Saladin Street, dove i mercati sono affollati e i bambini giocano agli angoli delle strade. Ma per il resto a est c’è poca vita, poche persone che passeggiano, pochi bar aperti, pochi giardini, pochi posti dove incontrarsi e poter parlare, e al loro posto ci sono intere aree devastate, spazi vuoti e desolati, angoli tristi e inanimati.

La sera poi è anche peggio, neanche ci fosse il coprifuoco. Nessuno in giro, nessun locale aperto, poche luci, poco traffico, pochi rumori. Fa eccezione l’American Colony, un hotel leggendario che non ha bisogno dell’illuminazione pubblica perché brilla di luce propria; ma a parte lì dentro, dove s’incontrano politici palestinesi, diplomatici e giornalisti, per il resto l’est è un mezzo mortorio, una città atipica in questa parte di mondo così vibrante: perché nell’aria si sentono le stagioni, e a primavera verrebbe voglia di star fuori tutta la notte; e invece mancano i posti dove andare, dove sedersi a parlare, qualche bel caffè arabo per esempio, oppure una fontana, un cinema all’aperto, una piazza per lo struscio serale, o semplicemente un bel cortile o uno slargo con le panchine dove potersi sedere a guardare la gente che passa.

Le ragioni di tutto questo s’imparano poco alla volta, perché c’è di mezzo la storia fittissima degli ultimi settant’anni. Ma grosso modo sono riconducibili a tre momenti precisi: l’armistizio del 1948, quando la città venne divisa in due, tra lo Stato di Israele e il Regno di Giordania; la guerra dei Sei Giorni del 1967, che si concluse con l’occupazione israeliana della parte giordana; e la seconda Intifada tra il 2000 e il 2005, in seguito alla quale, con la costruzione del muro di separazione tra Israele e Cisgiordania, Gerusalemme est finì per essere strangolata: separata anche dall’entroterra palestinese oltre che dalla sua metà occidentale.

La divisione tra un est palestinese e un ovest israeliano è dunque una questione relativamente recente, di alcuni decenni, perché invece lungo la sua storia plurisecolare Gerusalemme era sempre stata una, che poi è il motivo per cui tra i suoi abitanti c’è chi continua a considerarla tale, da una parte e dall’altra. Non erano mai esistiti insomma un Occidente israeliano e un Oriente palestinese, o meglio erano cominciati a esistere solo quando la città fu divisa a tavolino, dopo la guerra del 1948, contrariamente a quanto previsto dal piano delle Nazioni Unite che invece aveva raccomandato di tenerla unita, come corpus separatum da porre sotto un regime internazionale speciale.

Che a Gerusalemme fino alla metà del Novecento parlare di est e ovest non avesse senso, si capisce anzitutto dalle case. Perché era proprio a ovest, nel cuore dei quartieri ora israeliani di Musrara, Katamon o German Colony, che venivano costruite le case arabe più belle. Con gli ingressi a forma di arco, i tetti a cupola e i giardini alberati tutt’intorno. Era la Gerusalemme tra la fine dell’impero ottomano e l’inizio del mandato britannico, che iniziava a espandersi fuori le mura di Solimano. Non c’erano linee verdi né altre barriere in quella città, e le famiglie arabe cosmopolite e benestanti sceglievano di costruire a ovest le proprie case, cioè in direzione del mare e del commercio.

Il fattore unificante tra est e ovest, sotto un profilo urbanistico, è la pietra bianca. Ne abbiamo già parlato, relativamente alla Città Vecchia, ma per quanto riguarda il resto della città il suo utilizzo a tappeto si deve specialmente ai militari inglesi all’inizio del mandato britannico, che subito si posero il problema di come proteggerne e preservarne la fisionomia. Sir Ronald Storrs fu nominato governatore britannico all’indomani della sconfitta ottomana del 1917. E per prima cosa proibì alterazioni e riparazioni negli edifici con materiali diversi, stabilendo che Gerusalemme dovesse continuare a essere una città di pietra. A partire da quel momento, si cominciò a tirar su un po’ di tutto, incluse parecchie brutture, ma tutte immancabilmente con le facciate di pietra bianca.

Tutto questo non è bastato a salvare Gerusalemme, né da una parte e né dall’altra della Linea Verde. Sarà stata colpa della demografia, dell’invenzione del calcestruzzo, della speculazione edilizia, oppure di tutte queste tre cose messe insieme. Fatto sta che a un certo punto la Storia ha iniziato a mettere a ferro e fuoco la città, a farsi beffe di certe sue tentazioni neomoresche, e a impastare con essa una specie di sagoma asimmetrica. A ovest, insieme a esempi di autentica architettura, sbocciarono come funghi dei palazzoni insensati il cui unico scopo sembrava quello di mortificare il paesaggio. A est, al posto delle residenze da Mille e una notte cui ci avevano abituato gli ottomani, vennero su palazzine senza fondamenta, condomini di cartongesso, villoni, villette e villini che a vederli non fanno neanche rabbia, fanno stringere il cuore.

© 2020 La nave di Teseo

02/12/2020

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