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Ippolito Edmondo Ferrario anteprima. Il banchiere nero

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E’ sempre un piacere scoprire un talento, seppur in colpevole ritardo, capace di una scrittura cinematografica, anche ideale per uno sceneggiato Rai a puntate o una serie Netflix, coniugata ad un respiro letterario di un classico. O almeno il tentativo, in questo caso riuscito, di non scrivere un romanzo a (s)comparsa ma un libro che attraverso il genere giallo per consegnarci una storia (reale) che ha il fascino di venire da lontano, fine anni ‘60, per farci comprendere che certi misteri lo sono per sempre, che certe atmosfere, che si respirano, sono le stesse che oggi fagocitano la “vita in diretta” per poi cambiare pagina e parlarci, subito dopo una tragedia, di “Ballando con stelle”, Gerry Scotti che batte la concorrenza, Lapo che si è perso a New York, la vecchia di 110 anni che ha sventato una truffa, i reali di Inghilterra e il cane cieco e zoppo che ha attraversato l’Italia per vegliare sulla tomba del padrone. Uno zapping emotivo che ci porta ad essere come siamo: impermeabili a tutto e a niente.

Ippolito Edmondo Ferrario con “Il banchiere nero e la bambina scomparsa” ( Fratelli Frilli editore) dimostra come lo scrittore – speleologo di una Milano sotterranea che potrebbe divorarci se solo ne conoscessimo la profondità lontano da tacchi, grate di areazione, linee metropolitane e tutti noi persi nella fretta e nella valigetta- riesca a raccontarci con verosimiglianza credibile (rara anche in tempi di libri-verita’) una storia di cinquant’anni fa ma sospesa nel tempo presente. In un paese perso e ritrovato nell’entroterra ligure, dove i turisti sono foresti e dove la generosità timida degli abitanti diventa un “mugugno”, il rapimento (reale) di una tredicenne prima del Natale del 1968 e poi ritrovata morta, dopo otto mesi, a pochi chilometri da Triora, paese dell’estremo Ponente dell’anima, conosciuto per i processi alle streghe. Tutto reale. Tutto comprovato storicamente, tutto affascinante perché il male è un rogo che da sempre è acceso nelle nostre coscienze. Attraverso il protagonista del titolo, il banchiere Raoul Sforza, che già nel nome e cognome sembra portare il proprio mistero: Raul come Gardini e Sforza, come la nobiltà che e’ mancata, alla fine, all’imprenditore. Al di là della trama – che lasciamo alla curiosità del lettore – a colpire e’ appunto lo stile dell’autore: serrato ma ponderato, classico ma moderno. Qualità rare in una Italia dove ormai ci sono più giallisti che galeotti, più noiristi che delinquenti.

Gian Paolo Serino

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Le montagne di nebbia

Quando la nebbia si diradò, lasciando che i viaggiatori potessero scorgere, appena sopra di loro, le prime case del paese di Triora, nell’estremo Ponente Ligure, erano da poco passate le tre del pomeriggio.

Un sole esangue e velato illuminava l’alta valle: i profili delle colline apparivano incerti, se non addirittura vaghi e fumosi come spettri evanescenti sorpresi dalla luce del mattino, quasi non volessero mostrarsi agli occhi dei due foresti.

Raoul Sforza chiese al suo autista di rallentare e accostare. C’era uno slargo lungo la strada a pochi metri da loro. Amedeo eseguì la manovra e con precisione si fermò accanto al guard-rail, nel punto indicato dal banchiere. Lì la montagna era a strapiombo mentre la strada, in un susseguirsi di curve, strettoie e tornanti, conduceva al borgo principale e più conosciuto di tutta la valle.

Raoul rimase per qualche istante a galleggiare con lo sguardo su quel mare di nebbia lanosa che gli evocava il dipinto del maestro tedesco Caspar David Friedrich, intitolato Viandante sul mare di nebbia, in cui l’artista aveva ritratto un viaggiatore solitario mentre contempla un panorama montano non dissimile da quello che il banchiere aveva d’innanzi a sé.

Le cime delle montagne emergevano a fatica dal biancore opaco e lattiginoso stagliandosi cupe: lo sguardo, di fronte a quel meraviglioso infinito naturale, spaziava dai monti Toraggio e Pietravecchia, al confine tra Italia e Francia, sino al monte Grai, passando per monte Gerbonte con il suo bosco di larici secolari.

«Triora…», mormorò Raoul scendendo dalla Land Rover e distogliendo lo sguardo altero e sprezzante dalla vallata, per rivolgerlo a quella parte di borgo simile ad un avamposto proteso sul precipizio che sovrastava chiunque si trovasse a percorrere la strada.

Si percepiva un che di nobile e austero alla vista di quelle prime case in pietra, tanto che Raoul, prima di arrivare, aveva voluto fare una sosta quasi per studiarle da lontano e prendere confidenza, come fossero cosa viva alla quale approcciarsi con circospezione.

Il viaggio che li aveva condotti sin lì da Milano era stato senza imprevisti. Una volta abbandonata l’Autostrada dei Fiori, all’uscita di Arma di Taggia, avevano seguito la strada provinciale 548 della valle Argentina che in parte costeggiava l’alveo dell’omonimo torrente.

Raoul si guardò intorno ammaliato dalla fitta vegetazione che ricopriva l’aspro pendio, arrivando a insinuarsi fin sotto, e anche oltre, a quelle dimore di sasso; alcune avevano l’aspetto di un rudere, altre svettavano come torri medioevali perfettamente conservate.

Ricorrendo ad un’abitudine consolidata nel tempo, quando era il momento di fare “conoscenza” con un luogo, il banchiere sfregò la punta di un Minerva e incendiò un sigaro Cohiba.

La presenza di quella bruma, fatta di laceri filamenti, conferiva al paesaggio una nota malinconica che lo affascinò subito.

La prima boccata di tabacco fu così piacevole da strappargli un sorriso, gesto raro e inconsueto per il banchiere. Raoul appariva al prossimo perennemente corrucciato, come infastidito: da cosa o da chi, nessuno lo sapeva, ma quello era il suo atteggiamento quotidiano.

I sentori di umido e di sottobosco, di felci cresciute rigogliose ai piedi di larici e faggi secolari, andavano a confondersi con quelli vanigliati del sigaro. L’aria era carica di pioggia.

Sforza proseguì nell’osservare attentamente il paesaggio, senza fretta, ritrovandosi piacevolmente colpito dai tratti selvaggi e aspri del territorio di cui conosceva poco, se non per sentito dire.

Durante il viaggio aveva letto sul computer alcune notizie riguardanti la zona, soffermandosi in particolare sugli aspetti storici. Ripensò alle parole di Riccardo Bacchelli dopo la sua visita a Triora avvenuta per la prima volta negli anni Cinquanta.

Nel frattempo, anche Amedeo era sceso dall’auto e aspettava di ricevere disposizioni. Anch’egli osservava la valle, notando che in un tempo remoto parte del territorio era stato trasformato e reso coltivabile con la tecnica dei terrazzamenti sorretti da muri a secco. Ne rimanevano pochi, alcuni in molti punti erano franati, ma l’antropizzazione dei declivi era ancora evidente.

Raoul parve leggere nel pensiero del suo autista.

«Le genti di montagna sono tenaci per natura, ostinate e caparbie, altrimenti soccomberebbero. Quello che vediamo è un qualcosa di titanico, la cui grandezza oggi non viene più colta dall’uomo contemporaneo. Il turista che si mostra sbalordito di fronte ai grattacieli e alle riqualificazioni che stanno mutando il volto di Milano qui non coglierebbe nulla di straordinario, naturalmente a torto…», meditò Raoul caustico e sempre pronto alla polemica. Chi lo conosceva bene sapeva quanto poteva risultare odioso e insopportabile al prossimo, spigoloso, tagliente e irritante anche per il solo piacere di esserlo.

Amedeo annuì in segno di approvazione. Essendo un uomo di poche parole, in lui Raoul trovava l’interlocutore ideale, capace di ascoltare e recepire i concetti senza giri di parole.

Il banchiere, sempre durante il viaggio, si era anche soffermato, seppur per sommi capi, sulla vicenda del processo per stregoneria che si era tenuto a Triora nel 1587.

In età moderna, grazie agli studi e all’opera divulgativa del religioso padre Francesco Ferraironi, Triora aveva assunto la nomea di paese delle streghe per antonomasia.

«Avremo modo di tornarci, più tardi. Proseguiamo ora…», stabilì Raoul salendo a bordo del Suv e lasciando il finestrino abbassato.

Il tabacco stava sortendo su di lui un effetto di puro godimento che il banchiere decise di amplificare ascoltando un brano musicale adeguato a quella situazione.

La musica, intesa come colonna sonora della giornata, era quasi un’ossessione alla quale non rinunciava mai. Momenti come quello andavano necessariamente vissuti con la musica come accompagnamento. Raoul scelse meticolosamente dai suoi preferiti optando per un brano che si adattasse a quel panorama a tinte cupe: Phantom Waltz di Daniel Davies, contenuto nell’album Signals.

Su quelle note proseguì godendosi il resto del tragitto, respirando l’aria che arrivava da fuori e inebriava la sua mente, prima ancora dei polmoni.

Ippolito Edmondo Ferrario

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