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Francesca Mezzadri inedita. Camelia

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Il grido d’allarme gettò la cascina nello scompiglio.

Ci fu un breve silenzio.

Poi cominciò a crescere nell’aria un vibrare che metteva paura.

Che stava capitando? Perché mia sorella puntava l’indice al cielo dove si intravedevano decine e decine di punti neri? Che fosse uno stormo di migratori? Impossibile! Di giugno andavano verso il caldo e c’era nell’aria un rombare che assordava. Altro che uccelli di passo! Erano fortezze volanti.

Dopo quella prima volta tornarono. A noi sarebbe piaciuto contarle. Ma non si poteva stare con il naso all’insù. L’ordine era di scappare al rifugio. La notte si caricava di un’altra attesa: Pippo. Per colpa sua c’era l’oscuramento: tende ben tirate e carta da zucchero intorno alle luci.

Al grido che passavano le fortezze volanti, gli ultimi a scappare eravamo noi ragazzi: trattenuti dalla curiosità e dalla voglia di farcela, a contarle. Per aver da pensare la nostra quando il giornale radio forniva notizie delle incursioni. Le donne facevano il segno della croce mormorando un “de profundis” mentre i ragazzi confrontavano i loro numeri con quelli che il bollettino dava.C’era una sproporzione. Occorreva contare meglio.

Oppure avere più tempo.

Ma rimaneva l’ordine di scappare al rifugio. Una grande buca scavata nell’orto, coperta di travi e con sulle travi, terra che la gramigna eguagliava. Questo era il rifugio. Quando il rombare delle fortezze volanti si allontanava, le nonne mettevano in tasca il rosario, le mamme rassettavano il grembiule, i ragazzi volavano fuori. In attesa di Pippo. 

Che non era il tipo da mancare una volta.

Così trascorrevano i giorni del ’44  delle parti del lariano. Una cascina con donne e ragazzi. Gli uomini erano in guerra. Tranne lui, Barbieri Giovanni per tutti, Gianon. Un Ercole che non guardava in faccia nessuno. Per i vent’anni passati in carcere, le donne dicevano.

Ma per noi era… un Dio! Non solamente perché  l’unico uomo. A lui,  a lui si doveva il rifugio.

I giorni più lunghi della mia memoria rimangono quelli del ’44. Gianon cominciava presto e chiudeva la giornata al tramonto. Sembra impossibile! Eppure, da solo e con solo una vanga, scavò una buca di almeno due metri, larga quattro, lunga sette o anche più. Pareti liscie, fondo regolare come in cantina. Gli angoli perfettamente squadrati. All’intorno, una montagna di terra che “stigava” a giocarci. Ma non si poteva.  Serviva la terra, a sostenere il tetto. Per farlo, Gianon avrebbe abbattutto fusti di rovere. Di mestiere Gianon spaccava legna. Mazza, tagliole, accetta: i suoi ferri. Le tagliole di acciaio brunito, sbocconcellate alla base, affilate di punta, penetravano il legno senza premura. Ancora senza premura Gianon, smazzava. Lo stesso quando si abbatteva sul legno l’accetta. Dappertutto volavano schegge. Nel silenzio ritmato dai colpi, l’aria si caricava di odori; della terra umida e scura, del rovere vecchio e smembrato. Ad ogni fusto abbattuto, Gianon sostava a contare gli anelli: l’età della pianta. Poi ricominciava senza premura. Noi lo guardavamo incantati. Ci sapeva fare. Gli bastava un colpo per fare il lavoro di tre.

Un colpo solo. Come quella volta: quando era caduto in disgrazia.

Una vecchia storia. Della quale si parlottava tra donne: credule che noi ragazzi non intendessimo. Altroché non era già corsa e ricamata tra noi, la storia di  come Gianon cadde in disgrazia! Non si parlava d’altro aspettando il sonno.

O Pippo, che non era il tipo da mancare una notte. 

Senza premura Gianon smazzava. Anche i vent’anni in prigione li aveva passati così. Lavorando.

Il lavoro contro i pensieri, nella fatica il rimedio per la notte. Cominciare presto e chiudere la giornata al tramonto. Ma il sonno stentava. Il corpo stanco, la mente no. Quella era una compagna molesta. Molesti i ricordi. Davanti agli occhi sempre l’estate del ’23.

Quando la disgrazia segnò Barbieri Giovanni.

Un Ercole che già da ragazzo, lavorava per tre.

Il padre faceva giornata all’osteria. Carlino, il fratello, aveva occhi storti e frequenti convulsi.                  

  La madre, una santa: per il marito, per il figlio sfortunato, per l’altro figlio, che era troppo robusto e buono da non dovergli capitare qualcosa.

Così diceva la gente.

Anche per Giovanni la madre era una santa. E tutto quello che diceva, per lui era Vangelo. Rispettare il padre anche quando tornava dall’osteria cattivo e ce l’aveva con tutti. Voler bene a Carlino e fargli da genitore, quando fosse venuto il momento. Mettere la forza nel bene e non a servizio del diavolo, detto il “maligno”. Lui obbediva. Non pensava alle donne se non perchè, mancata la madre, una in casa, per badare a  Carlino, avrebbe fatto comodo. Pur di trovarla…

Dopo la sesta cominciò  a smazzare.

E fu per tutti Gianon.

Ma per la madre, che non parlava dialetto, rimase Giovanni. La domenica portava il fratello alla prima Messa. Gli sarebbe piaciuto andare poi con gli altri all’osteria.

Ma là c’era il padre: meglio passare la festa in giro per la campagna. Un passo dopo l’altro, con il sole o anche in mezzo nebbia, per arrivare all’argine maestro. Il fiume ingannatore era il confine della sua domenica. L’acqua passava insieme alle ore. Poi, un altro lunedì.

Per il servizio di leva gli toccò la Calabria.

La prima cosa che fece, dopo che l’ebbero vestito da bersagliere fu di mandare un ritratto ai suoi. Per dedica scelse “Da chi ognor Vi pensa”.

Tornò uomo ma non gli lasciarono troppo tempo. Anche per lui vennero 45 mesi di guerra. Dal fronte mandava cartoline postali. La salute ringraziando il Signore buona; il rancio, scarso; il capitano prometteva una licenza; l’inverno diverso da quello di pianura: mancava la nebbia! Dalla madre, lettere scritte con grafia minuta. Mancavano gli uomini e la campagna inselvatichiva; il padre, con il fegato grosso, entrava e usciva dall’ ospedale; Carlino era più sveglio dopo il pellegrinaggio alle Grazie; il pane costava sempre di più e non si trovava farina gialla.

Solo una volta ebbe una lettera con qualcosa di nuovo. Scriveva, la madre, che Camelia, una vicina, si era fatta donna; una ragazza seria:  mostrava rispetto e non derideva Carlino. Dopo quaranta mesi di fronte e con le voci che il nemico era allo stremo, Gianon smaniava. Rivedere la madre, la casa e la faccia della sua gente. Vedere quella che lui ricordava bambina curiosa, sempre tra i piedi quando lui  smazzava.

Camelia.

Un bel nome, Camelia. Strano che quella avesse un bel nome. La madre scriveva che si era fatta donna: seria e rispettosa. Forse andava per casa ad aiutare. Allora poteva sapere che il bersagliere Barbieri Giovanni, quello del ritratto, sarebbe tornato, ringraziando il Signore, con le mostrine di caporale.

Si sposarono il lunedì dell’angelo del ’19: gli era bastato vederla.

La primavera del ’23 fu l’ ultima. Dopo un inverno da ricordare, tanto era stato crudo. Aprile, portò fioriture precoci.  

Chissà che non fosse l’anno buono, sperava Gianon. A casa sua non c’era segno di novità. Quattro anni, aspettando. Il padre se n’era andato nel venti, alla madre restavano vivi soltanto gli occhi, Carlino era sempre quello, anche se andava in pellegrinaggio alle  Grazie.

Aprile portò fioriture precoci. Ogni giorno, dal sole, nuovi colori. Ma non per Camelia.

Che pareva tornare all’inverno. Smagriva e come donna non era più lei. Nella minestra metteva il sale due volte. O nessuna. Lasciava il discorso a metà. Rideva durante la messa e mangiava grasso di venerdì. Gianon sopportava.

Ma quando  mancò di rispetto alla madre, dandole il tu, piantò il pugno sul tavolo: la donna aveva qualcosa.

C’era puzza di cloroformio in ospedale. Anche dopo una visita lunga e tante domande, il dottore non si pronunciava. Il caso imponeva l’esplorazione. Gianon faceva la spola dall’ospedale alla locanda e non gli piaceva: la signora aveva un certo fare. Come le donne che lui ricordava in vergogna. Quelle che visitava in libera uscita, durante la guerra.

Quando venne il momento, fece la firma.

Non era passata un’ ora che il dottore si pronunciò: aveva aperto e chiuso. Mentre parlava,  le mani bianche parevano quelle di un prete che dica..”Fiat voluntas tua!”

Un male. Partiva dal ventre e dappertutto metteva radici. Anche dentro il cervello. Dove stanno i sentimenti e ragione. A dirla così, la donna non era più lei.

Ad ogni parola una mazzata. Tagliole che penetravano il legno giovane. Quando fu detta l’ultima, Gianon valutò che gli anelli della sua pianta, forse bastavano per andare a Novembre. Nessuna cura. Ma, nessun patire. Dacchè il male toglieva sentimenti e ragione.

Fuori dall’ospedale l’aria odorava di tiglio e il sole già alto scaldava. La gente andava senza premura. Una zingara con in braccio un bambino gli offrì sorridendo il pianeta: un terno e…salute buona, matrimonio in vista, ritorno di persona cara, benedizioni per chi aiuta la povera gente, prosperità in affari, dolore grande ma passeggero.

Si attardò a leggere, con Camelia vicina, indifferente. La portò a spasso e le comprò un fazzoletto da   collo. Tinte vivaci contro il pallore. Avrebbe detto alla madre che c’era una grande anemia e che ci voleva molta pazienza.

La sera, in cucina, disse così. 

La madre chinò la testa, Carlino prese ancora della polenta, Camelia giocava con  la sua treccia tra le mani.  Gianon stracciò il pianeta e andò all’osteria.

La primavera del ’23 fu breve. Pareva che tutti volessero fare i lavori prima del caldo. Filari da togliere, travi da sagomare, legna da accatastare per un inverno ancora lontano ma che poteva durare sei mesi. Come quello appena finito.

Gianon cominciava presto e chiudeva la giornata al tramonto. Il lavoro contro i pensieri, nella fatica il rimedio per la notte. Quando spiava il respiro di Camelia e toccava il ventre gonfio. Occorrevano tante preghiere per non pensare  restando con il fiato sospeso a vegliarla. La sua non era più una donna: eppure, anche sapendo che quella pianta era segnata e con poco tempo davanti, occorreva molta pazienza per sopportare la voglia di lei e portarle rispetto. Ma anche prima era trattata come si deve. Al pari di un libro nuovo: da sfogliare con mano pulita. O una pianta appena interrata: che patirebbe di troppo vento o di poche attenzioni.

L’estate del ’23 scoppiò a maggio. A giugno, secco come d’agosto. Dava ristoro il vino: ma tagliava le gambe.

Gianon lavorava.

Meglio così che vedere la donna spegnersi o la madre viva soltanto negli occhi.

L’ultima domenica di luglio il sole schiacciato e l’aria bassa minacciavano un temporale. Chissà non venisse davvero, un temporale, a rompere l’afa, a dare il fresco almeno di notte.

All’osteria non c’era nessuno. Gianon prese una bottiglia di Malvasia e cominciò a vuotare. Dai primi dell’anno il posto che era stato del padre ora era suo.

Il vino fresco accarezzava la gola e fumare teneva compagnia. L’oste era uno che sapeva parlare. “Un caldo così c’era stato nel ‘900, l’anno di Umberto. D’estate anche allora: il caldo aveva toccato il cervello a mio cugino! Chissà: un caldo da raccontare, anche questo del ‘23. Ma poteva venire qualcosa. Un temporale: per via del sole schiacciato e dell’aria bassa.”

Gianon annuiva succhiando la pipa. Solo per un momento ebbe un brutto pensiero. Che dal ‘900 al ‘23 correva giusto l’età di Camelia.

Quando rintoccò mezzogiorno, prese il viottolo di casa. Dalla parte di Asso il cielo si inscuriva. C‘era una luce falsa e i pioppi davano un verde sbiadito. Forse il tempo cambiava e allora sarebbe venuto un lunedì  meno duro degli ultimi. Rotta la stagione… agosto alle porte…più corti i giorni…come diceva il pianeta…dolore grande ma passeggero!

Nella calura procedeva ingobbito, pesante, quando un brutto pensiero gli fece vedere un funerale con dietro nessuno! Un brutto pensiero! Colpa del caldo e del vino: al funerale di sua madre non sarebbe mancato nessuno. Tutto il paese e la banda. Era stata maestra d’asilo!

La casa era senza rumori. In cucina, la madre, viva soltanto negli occhi.

Nella camera dietro, quella più fresca, Camelia.

Sul letto fatto e con niente addosso.

Era la prima volta che si lasciava vedere così.

Nella penombra la pelle bianca non mostrava segno di malattia.

Una bella pianta di ventitrè anelli. Rimase a guardarla in adorazione e come aspettando qualcosa. Il temporale che si appressava. O un cenno da quelle belle ciglia socchiuse.

Quando avvertì una presenza, fu come se un lampo l’avesse accecato!

La tenda! La tenda!! Qualcuno dietro la tenda? Balzò dietro la tenda squarciata…respiro convulso…occhi storti..Carlino!!

Inferse un colpo possente. Un colpo solo.

Il silenzio che venne fu breve.

Il temporale scoppiò in tutta la sua icontenibile furia. Tuoni secchi. Folate sferzanti. Scrosciare.

Sui tetti, sui pioppi, sui campi ingialliti. Buio come notte e, dai lampi, bagliori improvvisi.

Camelia rimase com’era. Con in mano la sua treccia.

 

Francesca Mezzadri

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