Quando la cronaca si trasforma in linguaggio poetico, la tragedia del presente trova una voce ribelle che si solleva con la forza di un uragano. La testimonianza civile e di memoria collettiva di Yuleisy Cruz Lezcano, scrittrice, poetessa ed editorialista di origini cubane, è carica di febbrile energia fisica e morale, specie se i temi riguardano le morti sul lavoro, la violenza contro le donne, le ingiustizie sociali. Una voce poetica che si apre alle possibilità espressive di quella relazione profonda tra realtà socio-politica ed interiorità, con l’orgogliosa coscienza che dietro ogni evento c’è un volto, un destino, un dolore. “La vita comincia quando smettiamo di guardarla attraverso uno schermo”: in questa sua affermazione c’è la cifra distintiva della sua poesia che nasce dal flusso interno della vita per restituirci le voci di una folla di uomini e donne spesso invisibili o presto dimenticati, conferire la giusta e la necessaria dignità all’essere umano ferito, emarginato, estratto dalle falde acquifere inquinate dell’accelerazione globale. “Canto d’emergenza dei pensieri, nato da un sentimento” era la definizione che Paul Celan dava alla poesia intesa come percezione profonda che affiora dalle zone più oscure e profonde dell’io, generando quell’alterazione dell’apatia distratta che ci tiene compagnia nel tempo ripetitivo, indolente e rassegnato della quotidianità. Qui è decisivo il valore polisemico della parola “emergenza” che per la Lezcano, è stato di allarme, passaggio tra le tempeste e i sussulti della carta stampata e le luci intermittenti degli schermi televisivi per emergere, dopo un tragitto accelerato, verso la superficie e la luce. “La poesia non è un giornale. È un atto di conoscenza”, ci ricordava Pier Paolo Pasolini e la Lezcano, nel dare voce all’invisibile, dopo l’atto conoscitivo, estrae la materia della sua poesia con l’atto linguistico di un fiume in piena, costantemente impegnata nel delicato e complesso rimontaggio di un insieme di dettagli invisibili e segreti del reale da ricostruire oltre la rete dell’apparenza dentro la quale siamo catturati. Che ne facciamo del sangue versato? Continueremo a spiare dall’alto dei nostri comodi palchi la scena, “la morte che non si dilunga ad ascoltare”? L’autrice ha già pubblicato 18 libri, alcuni dei quali in edizione bilingue (italiano/spagnolo e spagnolo/portoghese) e in “Di un’altra voce sarà la paura”, Leonida Edizioni, 2024, candidato al Premio Strega, ci ha restituito tragiche testimonianze femminili di violenza , di perdute libertà, di deserte e soffocate speranze.
Seguendo con foga le permutazioni imprevedibili del linguaggio poetico in un sommovimento ondulatorio che somiglia a quello dei batteri, in un processo che richiede un’incessante energia creativa, ci offre la sua testimonianza civile con velocità supersonica, focalizzando e assorbendo febbrilmente fatti e conoscenze funzionali a questa poetica dell’urgenza, mettendo a nudo la fusione tra informazione ed empatia. Emergono in queste poesie dedicate alla morte del vigilante Carmine Griffone , schiacciato da un cancello a Tufara Valle, in provincia di Benevento, tutti gli elementi di una poetica che segue i principi della fisica, per cui interagiamo con essa secondo l’idea che la vita biologica non è una macchina che si ripete sempre identica a se stessa ma creazione, imprevedibilità. È vita nuova che inglobando e conservando in sé il passato, cresce e si rinnova, cosicché “anche le vite delle tante vittime sul lavoro non sono numeri, ma storie umane da custodire ed ascoltare.” La poesia civile non grida per retorica, ma trasforma l’indignazione in una lirica spontanea ed autentica, lieve e tragica, flusso di evocazioni visive capaci di “stare nella lingua” per trasformare la rabbia in consapevolezza.
Guardare le cose dalla parte dell’ombra, entrare a tastoni dalla parte del cuore, seguire il desiderio di dire l’inferno del dolore, restituire il senso etico di una vita spezzata, di un progetto incompiuto. In questo senso, la parola poetica è un atto politico, un gesto di cura, di compassione di ri-significazione e di memoria.
Rossella Nicolò
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Acino bruno
(dedicata a Carmine Griffone) 
Nessuno ha visto
fuggire dagli occhi
dal bianco in cui sostava
la musica delle pupille,
acino bruno nello sguardo,
sull’immagine di un cancello,
quando sulla fronte
gli si è posato il passero che era.
Un nido cresce
tra le crepe del ferro,
voci che non sanno
starsene zitte
scivolano sulle rotaie
del tempo sospeso,
e il silenzio si piega
come lino steso al vento.
Sotto, un lenzuolo;
sopra, parvenza di viso
che annuncia appena
quel che lascia.
Tracce del precario inventare
che segna il ritorno cancellato,
un crisantemo s’inchina
con la balza rosa.
Punti neri stringono
la corolla al suo sfarzo,
mentre la cera azzurra
fissa gli occhi delle morti, 
pronte a essere divise
tra colpe e parole di pane.
I righi di corvi
si arrampicano sulle tenebre,
entra la notte,
scorre tra metallo e polvere,
e il ferro oscillante
batte come un cuore
che non sa
se continuare il passo.
Ogni respiro
è una corda tesa
sul liuto spezzato,
eco di un turno
mai terminato,
ombra che raccoglie
voci e indizi,
si dissolve tra crepuscolo,
simbolo di rito sospeso,
canto mutato,
musica che resta
tra le sbarre e le nuvole,
tra acino bruno
e il passero che vola,
armonia fragile
che sfugge al tempo.
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Sassi di fiato
Nel groviglio del caso 
arrovella sciami di vita,
presa alla rinfusa,
la morte non prende tempo,
non si dilunga ad ascoltare.
L’asciutto taglio del passo
supera la soglia
senza voltarsi,
mentre per cielo un lenzuolo
tende la strada della carne.
Basse all’erba cresciuta,
che supera la gabbia di ferro
scrollata dai binari,
nell’aria, tumefatte
si asciugano lacrime
divenute sassi di fiato,
che sanno risalire
dai recessi più profondi,
tra l’acciaio e il silenzio
del respiro che non osa.
In quel brano di tempo
resiste la traccia,
il cancello accende il ghigno
dove tutto si ferma.
Per bucare la pelle
il ferro si accomoda,
lungo le pieghe del sole
che si allunga sui tetti.
Una sagoma si accorcia,
il destino se ne va,
la fretta scivola
in un’ombra innocua,
che si toglie gli abiti
di rappresentanza.
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Groviglio di vita
Ogni frammento resta sospeso,
eco di un passo interrotto,
ombra che attraversa
il crepuscolo dei cancelli.
L’urlo di un lembo di carne
voleva esplodere, schiacciato,
lungo le ondose fughe dei cumuli,
dove nulla scende dalla memoria.
Dalla cronaca di acque torbide,
mescolate ad altri segreti,
si levano spettri di passi interrotti,
respiro sospeso nel ferro e nella polvere.
Appaiono nel gorgo scuro
di occhi celati formiche fatte
processioni di attimi smarriti,
api succhiate dal fiore
che nutre lo schianto dell’istante.
Il cancello fende il tempo,
scricchiola sotto il peso dei gesti,
una sagoma si allunga e si accorcia,
il sole scivola tra barre e pietre.
Ogni passo si piega
nelle crepe del cemento,
un lenzuolo di vento avvolge
il pane che lievita altrove,
il mondo resta gravido di silenzio
difforme nei suoni della resa,
nell’eco dell’operaio che tace.
Allo sciabordio lento della risacca
s’allenta il tempo, e nulla più risponde.
Yuleisy Cruz Lezcano