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Giuseppe Foderaro inedito. Vita di un cinghiale travestito da liberto

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Ci sono scrittori che cercano la verità e scrittori che la provocano. Giuseppe Foderaro appartiene a questa seconda e lo dimostra anche con questo “Vita di un cinghiale travestito da liberto” , che è il suo esperimento più feroce: un romanzo che non racconta la storia, ma la seziona. Non evoca l’antica Roma: la scuoia viva.
Il titolo stesso è già una dichiarazione di poetica. Il “cinghiale” è la bestia primordiale che abita sotto la toga dell’uomo; il “liberto” è la sua caricatura moderna: colui che si crede libero solo perché ha imparato a obbedire con eleganza.
È una metafora che travalica il contesto storico -l’Impero romano di Nerone- per diventare radiografia del presente: un mondo dove il potere è una recita, e la libertà, come direbbe Foucault, è solo una forma più sofisticata di disciplina.
La sua e’ letteratura che torna al proprio compito originario: disturbare i vivi.
In un panorama letterario che ha paura del rischio – dove molti romanzi sembrano redatti da uffici stampa della coscienza- Foderaro si getta nella fossa con il suo animale totemico.
Il cinghiale-liberto è la maschera del potere e insieme la sua parodia: un Bataille travestito da Petronio, un corpo che pensa e una mente che gode, un simbolo che si rivolta contro se stesso. Il confine tra umano e animale si frantuma, e il lettore si scopre parte della stessa metamorfosi.
Foderaro ci vuol far capire che la civiltà non ci ha liberati, ma soltanto addestrati.
Il liberto è l’uomo contemporaneo: crede di essere indipendente perché non vede più la catena.
Foderaro riporta la letteratura nella zona proibita: quella in cui la parola brucia, in cui la cultura non è ornamento ma veleno.
C’è in lui qualcosa di profondamente nietzschiano: la volontà di attraversare la decadenza, non di fuggirla. Roma non è la rovina, ma la rivelazione.
Foderaro non cerca il consenso del lettore, ma il suo smarrimento.
È un romanzo che pretende che si perda il controllo: della trama, della morale, persino del linguaggio.
Giuseppe Foderaro con questo libro non entra nel canone: lo sporca.
E forse è proprio questo che serve oggi alla letteratura.
Perché, alla fine, come insegnava Foucault, la libertà non è mai un dono: è un travestimento.
E Foderaro ha avuto l’audacia di strapparci la maschera mentre credevamo di leggere un romanzo storico.

Gian Paolo Serino

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Questo libro nasce dal bisogno di riconoscere che non tutto ciò che apprendiamo corrisponde al vero, e che molte delle verità ritenute assodate dall’accademia e dalla scienza poggiano su basi meno solide di quanto si creda.

La storia – e con essa la storia dell’uomo nella sua evoluzione – non avanza in modo lineare. È un percorso irregolare, fatto di accelerazioni, soste e deviazioni. Ciò che appare certo in un momento, in quello successivo può rivelarsi fragile o superato. La conoscenza non è una costruzione definitiva, ma un organismo che cambia forma nel tempo.

Le grandi scoperte – le piramidi, Machu Picchu, Pompei – non offrono risposte assolute. Ci restituiscono immagini parziali del passato che ogni epoca interpreta alla luce delle proprie domande. Non ci parlano tanto di ciò che fu, quanto di ciò che noi, oggi, vogliamo credere che sia stato.

Anche nella ricerca scientifica la verità è raramente un punto fermo. Nei congressi, nei dibattiti accademici, non sempre prevale la tesi più fondata, ma spesso la più autorevole o la più condivisa. La scienza non è un sistema immobile di certezze: è una conversazione continua, talvolta segnata da competizione, potere e interessi.

Un simile meccanismo si osserva nei processi giudiziari. La prova scientifica tende a prevalere su ogni altra, ma anche la scienza produce interpretazioni discordanti. Le perizie divergono, i referti si contraddicono, e ciò che dovrebbe essere oggettivo finisce per assumere i contorni di una verità negoziata.

Ciononostante, continuiamo a credere che ciò che leggiamo o ascoltiamo sia vero solo perché proviene da una fonte ritenuta autorevole. Col tempo, scopriamo che molte versioni ufficiali della storia – da Napoleone alla Seconda guerra mondiale – differiscono in modo significativo dai fatti. È in questa distanza che nasce la domanda essenziale: dove finisce il racconto e dove comincia la realtà?

Gli antichi lo avevano intuito, la conoscenza comincia dal dubbio. E tuttavia anche i loro testi ci sono giunti filtrati dal lavoro dei copisti medievali, i frati amanuensi che trascrivevano e talvolta adattavano le opere al pensiero dominante. Ogni copia è una riscrittura, ogni omissione una forma di interpretazione.

Così, la storia che leggiamo è il prodotto di una selezione. Tacito descrive gli eventi in un modo, Plinio il Giovane, per esempio, in un altro. Tra le loro versioni si apre uno spazio che non è errore, ma condizione stessa del sapere storico.

Nerone, al centro di questo libro, incarna questa ambiguità. Le fonti lo dipingono come un tiranno, ma fu anche un sovrano che tentò di rinnovare Roma in senso più moderno e più vicino alla cultura greca. Non fu un democratico, certo. Ma un innovatore radicale sì. La sua immagine fu deformata dalla propaganda successiva, che trasformò la complessità di un uomo in un archetipo del male.

Lo stesso vale per la storia naturale dell’uomo. L’evoluzione ci ha resi capaci di creare strumenti, linguaggi, culture, ma non necessariamente più saggi. La nostra intelligenza ci ha portati a dominare il mondo, ma anche a metterlo in pericolo.

È su questo confine – tra uomo e scimmia, tra conoscenza e illusione – che si fonda Vita di un cinghiale travestito da liberto. La ricerca dell’anello mancante non è solo un problema biologico, ma una questione di coscienza: il tentativo, sempre incompiuto, di comprendere ciò che siamo davvero.

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