«Le persone civilizzate prosperano in tempo di pace, gli idioti prosperano in tempo di guerra.»
Tijan Sila lo sa bene: è sopravvissuto a entrambi e Radio Sarajevo (Voland, 2025, pp. 180, € 18, tradotto da Cristina Vezzaro) è il suo modo di rispondere con la voce scorticata di chi ha ascoltato Bowie mentre cadevano le bombe. Non un romanzo di guerra, ma un romanzo della sopravvivenza alla guerra — quella che resta nelle ossa, nei suoni, nelle risate che non fanno più ridere.
Un bambino ascolta Suffragette City di Bowie, sdraiato sul tappeto. Poi un fischio, un lampo, e la storia finisce — o comincia — con un’esplosione. Così si apre Radio Sarajevo, romanzo di Tijan Sila, vincitore del Premio Ingeborg Bachmann 2024. E da quella prima nota, tutto il libro vibra come una corda tesa tra ironia e trauma, tra l’infanzia e il disastro:
«Ben presto sarei stato in preda a un panico costante e avrei visto la morte in ogni ombra, ma il primo giorno di guerra ero tutt’al più sbalordito.»
L’irrazionalità del conflitto intreccia la purezza della verità: «“La gente non vuole la guerra, piccolino!” mi aveva garantito mio padre. “Vogliono tutti la pace. Vogliono questo, ecco.”»
Sila scrive la guerra come un’allucinazione domestica: un’epoca in cui le famiglie si rifugiano in cantina e i bambini imparano a distinguere il calibro delle bombe dal tremolio dei vetri. È una Bosnia anni ’90 che non ha più confini ma solo echi, odori, schegge, bestemmie e canzoni.
La sua voce, lucida e disperata, non piange mai: osserva. E nel raccontare l’assedio di Sarajevo — filtrato dallo sguardo di un undicenne — restituisce la crudeltà più inaccettabile, la normalità che si adatta al massacro:
«È vero, infatti, che l’essere umano si abitua a qualsiasi strazio. Ma è anche vero che è uno strazio disabituarsi.»
C’è l’ironia feroce del sopravvissuto, ma anche la tenerezza corrosa del figlio che vede crollare i padri, le madri, i maestri, i simboli. Ogni personaggio è un frammento di umanità sospesa: i vicini che discutono chi deve dormire in cantina, il padre che promette la fine dei bombardamenti un secondo prima che ricomincino, il contrabbandiere che diventa eroe perché ha ancora del cibo. Tutti vivi, tutti sconfitti:
«Nel 1992 nessuno a Sarajevo sapeva che una guerra non finisce mai.».
Sila ha imparato a scrivere come si impara a respirare sotto le bombe: senza retorica, senza speranza, con la precisione di chi ha visto l’assurdo diventare routine. La sua lingua, limpida e ironica, taglia il romanzo di formazione con la lama del realismo tragico.
Non c’è eroismo né redenzione, ma un talento raro: trasformare la memoria in ritmo, la paura in racconto, la sopravvivenza in arte.
Radio Sarajevo è un libro che suona come una trasmissione pirata dal cuore della catastrofe: un Bowie balcanico che canta tra le rovine per non
dimenticare. Un romanzo necessario, non perché ci commuove, ma perché ci sveglia.
Carlo Tortarolo
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Quando caddero le prime bombe, ero sdraiato a pancia in giù sul tappeto in camera mia ad ascoltare la radio – trasmettevano Suffragette City di David Bowie: di colpo uno stridio metallico squarciò l’aria e un’esplosione si abbatté sulle nostre tende, spazzandole via dal loro binario. La pressione fu così violenta che mi sentii svenire, come se fossi rimasto appeso a testa in giù alla sbarra troppo a lungo.
Tutti gli impianti d’allarme della strada andarono nel panico, io invece no. Non ancora. Ben presto sarei stato in preda a un panico costante e avrei visto la morte in ogni ombra, ma il primo giorno di guerra ero tutt’al più sbalordito. Mi arrampicai sul termosifone per riuscire a vedere meglio dalla finestra. Abitavamo al sesto piano di un palazzone e sotto, giù in basso, un fumo nero turbinava sull’asfalto. Vidi qualcuno barcollare lungo le porte dei garage, una donna che si trascinava dietro la borsa. In quell’istante detonò una seconda granata, talmente vicina e talmente forte che la stanza sembrò sussultare. L’onda d’urto sfondò le nostre finestre. Colpì i cactus sul tavolo, lanciò il mio blocco da disegno fino al soffitto e me nelle braccia di mio padre.
“Perché non vieni quando ti chiamo?” imprecò lui mentre, con me in spalla, scendeva di corsa le scale per andare in cantina. “Io chiamo e chiamo!”
Raggiungemmo mia madre e mio fratello al secondo piano. Erano in piedi accanto a teta Marija, la pensionata dell’appartamento sotto il nostro. La vecchia era aggrappata alle scale e respirava ansimando forte, tanto che sembrava piangesse. L’aria era diventata pesante e aveva uno strano puzzo: di uova marce, ma anche come se qualcuno avesse acceso delle stelle filanti nella tromba delle scale. Oggi potrei riconoscere quell’odore tra mille – è l’odore di esplosivo innescato. Di nitrocellulosa, per essere precisi.
Nazif, uno dei vicini del piano terra, stava salendo le scale:
“Serve aiuto?”
“Si sente soffocare” rispose mia madre. Un attimo dopo, una terza esplosione scosse i muri, fece cadere dal soffitto il cono in vetro della lampada delle scale e vibrare l’estintore come un gong, così Nazif si caricò Marija sulle spalle senza chiederle il permesso.
“Santiddio, ma che succede?” domandò uno dei vicini quando arrivammo in cantina. Indossava un accappatoio, tremava e profumava di shampoo.
Gli scoppi colpivano ora la città a raffiche, ritmiche, inesorabili, e nel mezzo si sentivano tiri di fucile. Il pavimento tremava, dal soffitto cadeva piano polvere di cemento, e il vicino in accappatoio continuava a chiedere la stessa cosa: “Che succede? Che significa?”
“Cosa vuoi che significhi?” lo zittì alla fine Marija. “È scoppiata la guerra.”