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Linwood Barclay anteprima. Whistle

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Una distesa piatta, attraversata da binari che tagliano la nebbia come vene di ferro.

È qui che comincia Whistle di Linwood Barclay (Nutrimenti 2025, pp. 480, € 20, traduzione di Nicola Manuppelli – in uscita il 7 novembre) — in un luogo dove il silenzio sembra sapere più di chi lo abita. Un trenino giocattolo corre su rotaie minuscole, ma il suo suono è quello dell’assenza: un fischio che non promette ritorni.

Da sempre, Barclay scrive dell’ordine che cede, delle famiglie che si spezzano sotto il peso di ciò che non viene detto. Ma questa volta, qualcosa si incrina davvero. Whistle non è solo un romanzo dell’orrore: è la cronaca di un autore che smonta la propria macchina narrativa per ascoltare il rumore che fa, una volta tolto il motore.

Annie Blunt, la protagonista, è madre e testimone di un male domestico, un dolore che non esplode ma filtra. Vive in un mondo dove la ragione ha smesso di garantire rifugio, e persino un giocattolo può contaminarsi di oscurità. È la stessa inquietudine che Barclay ha sempre raccontato — la colpa, la perdita, la fragilità del controllo — ma questa volta spogliata di realismo, resa pura materia sensoriale.

Il treno di Whistle non corre verso l’inferno: corre dentro la mente.

Ogni fischio è un ricordo che ritorna, un suono che incide la carne. L’orrore, qui, non urla. Sussurra. Barclay entra nel territorio del soprannaturale come un viaggiatore fuori rotta: con l’accento di chi ha imparato una lingua nuova, ma ne rispetta la grammatica.

In un panorama dove l’orrore si traveste spesso da spettacolo, Barclay sceglie la sottrazione.
Scrive un romanzo che non spaventa con i fantasmi, ma con la loro assenza.

Un horror lineare, quasi sobrio, che usa la chiarezza come strumento di destabilizzazione.

Perché l’orrore, qui, non è altro che il ritorno del reale — quella crepa invisibile che si apre quando smettiamo di credere nella razionalità.

E in quella crepa, Linwood Barclay trova finalmente ciò che cercava da sempre: un cuore che batte, imperfetto, nel centro del silenzio.

Nancy Citro

#

E poi qualcosa accadde.

Jeremy sentì una… che cosa, di preciso? Una scossa? No, impossibile. L’alimentatore non era nemmeno collegato alla corrente. Eppure, c’era qualcosa, una specie di formicolio. Lo sentì percorrergli le braccia, anche se solo per un istante.

Si avvicinò il vagone merci al viso e lo studiò. Fece scorrere le dita lungo i lati, sentendo i piccoli bozzi in rilievo che imitavano i rivetti. Aprì e chiuse le porte laterali, fece girare con un dito le pesanti ruote di metallo.

Niente male, eh?”, disse il padre.

L’iniziale indifferenza di Jeremy si stava ora trasformando in qualcosa che somigliava all’entusiasmo. “Possiamo farlo partire?”, chiese.

Facciamo un cerchio di binari intorno alla base dell’albero”.

Ogni pezzo di binario aveva una terza rotaia che correva al centro. “Quella porta l’elettricità, mentre le due esterne servono da messa a terra”, gli spiegò il padre. “Evita i cortocircuiti. Ma tranquillo, non può darti la scossa”.

Una volta che i binari furono montati in un cerchio, Jeremy tirò fuori altri pezzi dalla scatola di Tide e iniziò a posarli con cura sulla pista, assicurandosi che le flange delle ruote fossero allineate con i bordi delle rotaie. Ora mancava solo la locomotiva per mettere in moto il treno.

Jeremy prese in mano la pesante locomotiva e il tender attaccato, con PENNSYLVANIA scritto a caratteri cubitali sul lato.

Il tender era il serbatoio del carbone, che dovevano buttare continuamente nella caldaia per far funzionare il treno”, disse il padre. “Cose del genere oggi non si vedono più”.

Dentro la cabina della locomotiva, seduto ai comandi, c’era un minuscolo macchinista con una salopette e un berretto a righe, la testa piccola quanto un pisello. Jeremy si avvicinò per guardarlo meglio.

Sembra vero, eh?”, disse suo padre.

Mi ha fatto l’occhiolino”, disse Jeremy, e il padre scoppiò a ridere. Girò la locomotiva tra le mani, afferrandola con entrambe, e guardò dritto nel faro montato davanti.

La luce si accenderà quando lo metteremo sui binari e alzeremo la leva dell’alimentatore”, disse il padre, il che sembrava strano a Jeremy, visto che riusciva già a vedere un lieve bagliore nella lampadina.

Glynis, accarezzando i capelli della sua bambola Bratz, annoiata e infastidita dal fatto che quel ridicolo trenino stesse ricevendo così tanta attenzione, chiese: “Facciamo colazione o no?”.

Appena Jeremy posò la locomotiva sui binari, sentì di nuovo quel formicolio. Era difficile da descrivere, ma gli ricordava lo scherzo che il suo amico Ricky gli aveva fatto una volta. Un anello elettrico a scossa che aveva trovato tra i vecchi oggetti di suo padre. Lo infilavi nella mano e, quando stringevi la mano a qualcuno, gli davi una piccola scossa. Ma questa era una versione molto più lieve. Delicata, quasi piacevole.

Il padre di Jeremy collegò due fili dalla parte inferiore del binario ai terminali dell’alimentatore, avvitò bene i connettori filettati per garantire una buona conduzione elettrica, poi lo attaccò alla presa a muro. C’era una leva sulla parte superiore dell’alimentatore, che spiegò essere l’acceleratore. “Forza, fallo partire!”.

Jeremy alzò la levetta e, come per magia, la locomotiva emise un ronzio elettrico, il faro si accese e, quando Jeremy spostò ancora un po’ la leva verso destra, le ruote iniziarono a girare. Dalla ciminiera della locomotiva sbuffarono leggere volute di fumo. E che suono meraviglioso fece.

Ciuf. Ciuf. Ciuf.

Jeremy girò ancora la levetta e le ruote girarono più veloci.

Ciufciufciufciufciufciufciufciufciuf.

Il padre premette un pulsante rosso sull’alimentatore e attivò il fischio sulla locomotiva. “Ci sono un sacco di altre cose che puoi aggiungere. Edifici, alberi, personaggi. C’è persino un vagone con una botola sul tetto da cui spunta la testa di una giraffa e poi si ritrae giusto in tempo, e…”.

Jeremy non lo stava più ascoltando.

Si sdraiò su un fianco, con l’orecchio poggiato a terra, mentre le vibrazioni del treno risuonavano attraverso i binari e il pavimento di legno, rimbalzando fino al suo cranio. Ogni pochi secondi il treno sfrecciava di nuovo, la locomotiva sbuffava impazzita, i vagoni si trascinavano dietro di lei, con il vagone rosso di coda che chiudeva il convoglio. Un concerto perfetto di metallo su metallo, nell’aria l’odore dell’ozono.

Jeremy era incantato. Avrebbe potuto restare lì per ore, immaginandosi nella cabina di guida, a spalare carbone dal tender alla caldaia, il gomito appoggiato al davanzale del finestrino, la testa fuori a controllare le rotaie davanti, un fazzoletto rosso annodato al collo che sventolava, mentre il mondo gli scorreva accanto in un lampo.

Sembrava… magico. Come se lui e la locomotiva fossero diventati una cosa sola, fusi insieme. Gli tornò in mente quel libro che sua madre gli leggeva quando aveva due o tre anni, The Little Engine That Could, su quel trenino che non si arrendeva mai e alla fine riusciva a scalare la montagna. Adesso Jeremy era quel treno. E poteva fare qualsiasi cosa.

Divertiti”, gli disse il padre, e andò in cucina con la madre.

Jeremy, con cautela, sfiorò le rotaie con un dito, ritraendolo un attimo prima che il treno passasse di nuovo. Sentì una piccola scossa, di nuovo quel formicolio. Sapeva che non sarebbe dovuto succedere, eppure l’aveva sentito. Forse quel treno era diverso. Forse era persino speciale…

Ops”, disse Glynis, prendendo a calci il vagone rosso e facendo deragliare l’intero treno.

Jeremy era così assorto che l’incidente fu come un brusco risveglio. Guardò prima il treno rovesciato, poi alzò lentamente la testa verso la sorella.

Lei scrollò le spalle. “Hai ricevuto un regalo usato, di seconda mano. Roba vecchia di qualcun altro. La mia bambola Bratz è nuova. E ora vado a mangiarmi la tua girella alla cannella”. Posò la bambola sul divano e sparì in cucina.

Jeremy fissò il disastro che lei aveva provocato. Un deragliamento in piena regola. Poi ripensò a tutte le cattiverie che Glynis gli aveva fatto. Gli aveva detto la verità su Babbo Natale e il Coniglio pasquale. Un giorno gli aveva messo delle palline di cacca di coniglio nel gelato. Gli aveva infilato un rospo morto nella scarpa. Aveva raccontato a tutta la scuola che bagnava ancora il letto. E il giorno in cui aveva rubato tre dollari dalla borsa della mamma, non appena aveva capito che rischiava di essere scoperta, aveva infilato i soldi sotto il cuscino di Jeremy. La mamma li aveva trovati mentre rifaceva il letto. E i proclami di innocenza di Jeremy non erano valsi a nulla.

Glynis era una sorella molto, molto cattiva.

Lei era la sua persecutrice. Lui era la sua vittima. Era sempre stato così. Jeremy aveva pensato più volte di vendicarsi, ma sapeva che se avesse fatto qualcosa, i genitori lo avrebbero messo in castigo. Non poteva semplicemente tirarle i capelli o metterle un serpente nel cassetto della biancheria. Avrebbe voluto essere più furbo, trovare un modo per darle una lezione senza che nessuno sospettasse di lui.

Poi si girò su un fianco e adocchiò la Bratz che Glynis aveva lasciato sul divano a fissare il vuoto con i suoi occhi morti. E lì, sul pavimento, vide alcuni nastri verdi abbandonati, quelli che prima tenevano chiusi i regali ormai scartati.

Un’idea stava prendendo forma.

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