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Nella consuetudine del tempo. Intervista a Luisa delle Vedove

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Nella consuetudine del tempo è il nuovo libro di Luisa delle Vedove uscito nel 2021 per Samuele editore nella Collana Scilla, e pare raccontare un percorso singolare, un divenire che sin dal titolo ci incanta nella temporalità delle cose che pure permangono. Una sostanza cromatica che non muta e che però appare sempre diversa a occhi differenti. La pratica della pittura dell’autrice sembra aver lasciato la traccia del suo passaggio interiore come attitudine a simbolizzare sul foglio isole di significanti che, nell’arcipelago del flusso poetico, assumono il senso di una forma sostanziale. Lungo le sezioni senza titolo i blocchi di desiderio si susseguono come unica e pure diversificata sostanza diveniente. In queste pagine c’è tanta luce, c’è informazione quantica che collega una stanza tutta per sé al cosmo e all’ambiente intorno. Alberi, neve. Organi e organismi. La metafisica del tempo s’incarna nel ritmo cromatico di una poesia lieve e materica, che si schianta addosso all’esistenza di chi legge con la leggerezza di un’irradiazione sonora. L’alba della passione lungo orizzonti di una perfetta scrittura desiderante.

Gianluca Garrapa

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«Ma questo dissolversi no, e lasciare dolore

su ogni cosa guardata, toccata

da Umana Gloria, Mario Benedetti»

Ogni sezione è preceduta da un esergo, nella prima Mario Benedetti, poi ci saranno Rilke, Caproni, Graham. Che rapporto intercorre tra questi nomi e la sezione che andremo a leggere?

Ho scelto questi poeti, perché mi sono naturalmente ritrovata nelle loro opere, nel loro sentire e nel modo che hanno di esprimerlo. Non che io assomigli a loro, sarebbe una bestemmia solo pensarlo, ma è umanamente parlando che siamo simili: come Luisa poeta, ho ben poco da spartire con loro, come Luisa essere umano, sì molto. La comunanza è data anche dall’intuizione di ciò che potrebbe essere stata per ognuno di loro l’esperienza devastante della “mancanza”, che è così importante come motrice dell’essere (verbo). E dunque ecco Benedetti aprire la sezione dedicata al passato, all’infanzia che lui evoca con parole che tremano nel ricordo, Rilke la sezione dove si sente viva la fragilità umana, la solitudine, la morte, temi della sua poetica e poi Caproni che anticipa la mia Bestia, lui che non ha domato la sua e ne soffre e in ultimo Graham che si pone davanti al mondo a indicare cos’è questo nostro amato e odiato posto. Non ho voluto mettere dei titoli alle sezioni, perché volevo che gli scritti fossero sentiti come un flusso unitario, quasi di coscienza anche se non hanno propriamente questa impostazione. Un titolo, a mio avviso, rischiava di interrompere la reciproca influenza delle diverse immagini poetiche che si venivano a formare e che volevo fluttuanti nello spazio/tempo della parola. L’esergo invece anticipa, allarga e arricchisce il piano del significato e aiuta l’opera ad essere sentita come un corpo pulsante, non definitivo, interattivo e aperto alle risposte del nostro indicibile.

«il cielo, di un azzurro vario

da pennello – ma quello,

con una stella che ritorna

di paesaggio in paesaggio

quella

Sono i versi estratti dalla prima poesia della quarta sezione: leggendo ho avuto la netta impressione di scorgere la luce, quella diagonale della polvere in sospensione che folgora l’interno semibuio di una stanza. La vocazione di San Matteo di Caravaggio, l’illuminazione sui giocatori. È chiaramente evocata la tua attività di pittrice: in che modo la pratica pittorica ha influenzato il percorso di scrittura?

Innanzitutto ti ringrazio per la bella e lusinghiera immagine che hai disegnato con le tue sensibili parole. La luce è forse data dal mio occhio pittorico che agisce e si intromette prospetticamente, senza che io me ne accorga, anche in poesia? Me lo chiedo, perché per me è difficile vedere le analogie dei due ambiti, io vivo il fenomeno dal di dentro. Devo dire però che due mie amiche, entrambi poete, hanno affermato la stessa cosa: tu scrivi poesie, come dipingi. E dunque dovrei chiedere a loro la risposta, ma soffermandomi un attimo a pensare, posso dire che effettivamente c’è qualcosa di simile in pittura e in poesia per me ed è il processo creativo, la tecnica. In pittura creo delle macchie o anche le fotografo e poi osservandole cerco di fare emergere da esse l’immagine che mi suggeriscono. In fondo questo portare dall’indistinto al distinto un’immagine è quello che faccio anche in poesia con la parola. La mia predilezione per figure distinte, ma non definitive, che si impongono su uno sfondo che resta comunque incerto, penso sia effettivamente ciò che può essere visto nei miei testi. Sono immagini attraversate dal tempo, mobili e in divenire.

«di pochi giochi

era tiepido un angolo»

è un estratto dalla nona poesia della prima sezione. Il gioco, dal punto di vista del bambino, è una cosa seria. Secondo la leggenda, o la verità, non sappiamo, il poeta Arnaut Daniel avrebbe inventato la sestina lirica che, nella sua forma, è legata al gioco dei dadi, gioco che ridusse Arnaut in povertà. E nella tua scrittura, che rapporto c’è tra la poesia e il gioco?

Per me il territorio della poesia è sacro e deve essere attraversato con rispetto e devozione. Penso altresì che immergersi seriamente nell’esperienza poetica ci cambi, ci faccia essere sostanzialmente diversi da prima: come essere refrattari, insensibili in quello che è un cammino che si misura con la dimensione umana del dolore, che deve misurarsi con essa, come dice anche Ingeborg Bachmann, per essere autentico? Fatta questa premessa dovrei dire che no, non c’entra nulla il gioco con la poesia, ma subito mi appare una distinzione. Infatti, un conto è il gioco finalizzato a qualcosa altro da sé, come nel quadro della vocazione di San Matteo, dove si gioca per guadagnare denaro e/o avere quella scarica adrenalinica che tanto piace ai giocatori, un conto è il gioco finalizzato a se stesso, che non vuole altro da sé. Qui penso al gioco infantile, libero da costrizioni, che pensa solo a farsi, ad essere. Che inventandosi costruisce un mondo, il mondo del bambino, spinto da un’energia che viene dal di dentro. Un tipo di gioco che ha negli occhi la meraviglia. Ecco forse in questo senso mi arrischio a dire che può esserci qualcosa di simile tra la poesia e il gioco stesso così inteso. Anche in poesia, quando ci abbandoniamo ad essa, quando diventiamo inconsapevolmente la sua mano, tracciamo con le parole un percorso nuovo che ha negli occhi la meraviglia, che sentiamo pulsare di un’energia che sembra quasi non appartenerci e che ci fa dimentichi di noi. In fondo l’atto creativo non è forse uguale in tutti i campi? Per quanto mi riguarda, posso in parte testimoniare quanto dico essendo sia pittrice che poeta. Inoltre, pur non essendo musicista, ho spontaneamente suonato dei piccoli brani e devo dire che con stupore ho riscontrato che la prima esperienza creativa in musica ha superato in intensità le altre, tanto che considero quel primo brano musicale la mia migliore poesia. Lo so che sto divagando, ma che sia stato perché la musica e, in primis, la semplice produzione di suoni, fanno parte dell’esperienza più ancestrale dell’essere umano? Perché il suono dà il ritmo al respiro della vita? Nell’ovattato e protetto luogo della gestazione non incontra il feto il battito cardiaco della madre, l’unico suono che nasce per autoproduzione e non per contatto, suono che ci mette in comunicazione con l’universo, ripetendo in noi la vibrazione dell’esserci?

«tic tac e sono più che un’intenzione

tic tac respiro respiro!»

La tua raccolta, abbiamo detto, è divisa in quattro sezioni e, più che altro, si tratta, mi pare, di momenti di riposo, di quiete, come di stazioni riflessive tra una sezione e l’altra, come una lunga galleria che a un certo punto apre una grande finestra, l’esergo, che spinge lo sguardo a deviare dallo scritto e a ritornare con ulteriore impeto. Con quale criterio hai suddiviso la raccolta e che ruolo ha, secondo te, il respiro nella scrittura poetica?

Nella raccolta c’è un criterio temporale, le sezioni infatti riguardano chi il passato, chi il futuro ecc. La distinzione non è stata fatta tanto per dare un qualche ordine formale all’opera, ma nasce da una necessità intrinseca. Il libretto è il frutto di cinque anni di vita. Di cinque anni tribolati in cui la poesia è stata il tempo della sublimazione. Non l’ho deciso io, l’ho sentito come esigenza di sopravvivenza. Fino dall’inizio tenevo in tasca un quadernetto in cui scrivevo e guai se lo dimenticavo da qualche parte, mi sentivo persa. Ho dovuto mettere in discussione tante cose, ritirarmi in me stessa essendo catapultata nell’incertezza e nel dolore e trovandomi davanti alle grandi domande della vita, inevitabilmente. La successione cronologica risponde quindi alle fasi di riflessione che si sono manifestate mano a mano nel tempo. Sviluppandoli, avrei potuto fare benissimo quattro libri autonomi, ma ho pensato che la compresenza dei diversi temi avrebbe dato maggiore risalto e forza a quello che in fondo era stato un cammino evolutivo di cui il testo, così concepito, poteva dare testimonianza. Avevo e ho la speranza che chi legge e/o leggerà le mie poesie possa essere sollecitato a porsi le stesse domande che mi sono posta io nell’ambito di importanti tematiche esistenziali: la ferita dell’infanzia, la morte, l’aldilà e Dio, l’essere umano nel suo porsi al mondo. Nelle diverse sezioni, sostanzialmente, prendo atto di ciò che vedo, di ciò che succede e non do risposte definitive. L’unica vera risposta, la mia risposta al mondo, è l’accettazione di ciò che accade, l’accettazione della paura e del tempo che inesorabilmente passa e ci cancella, ma con la consapevolezza che attraverso lo sguardo dell’altro veniamo riconosciuti e ognuno di noi allora può dire: anch’io, anch’io sono stato!

Per quanto concerne il respiro, credo sia indispensabile al ritmo della poesia, alla sua melodia, al suo stesso esistere, anzi direi che la poesia è il nostro personale respiro, il nostro porci al mondo, che determina ciò che siamo e non ciò che pensiamo. Il grande poeta coreano Ko Un suggerisce che la poesia per le sue specificità, non può nemmeno essere classificata come letteratura, in quanto essa è la vita stessa e questa illuminante prospettiva dà corpo in modo perfetto anche alle mie parole. Forse sembrerà impropria questa considerazione della poesia, poiché ci appare immediatamente davanti agli occhi ciò che invece è il mondo nella sua brutalità. Sì, è legittimo questo dubbio, ma la potenza della poesia la si misura anche negli effetti della sua mancanza: è come con l’amore.

«il ramo nero della Notte si è diviso:

puro cristallo imperituro al centro

e rossi tizzoni a spegnersi»

Alla fine della raccolta c’è una traccia nascosta. Siamo un grido, il desiderio lacerante della passione. Che funzione ha questo testo finale, quasi esterno alla raccolta e al libro-oggetto? E che ruolo nella tua produzione artistica e poetica il corpo e il desiderio?

La scelta di introdurre un testo in una pagina secondaria, alla fine del libro nasce da un’idea dell’editore, Alessandro Canzian, che vuole che l’autore doni così una poesia in più al lettore. Una scoperta, che a mio avviso è anche una provocazione. È come se la poesia invitasse il lettore a collocarla al posto giusto: spetta a te, sembra dire, se hai letto bene il libro, capire cosa c’entro! A me è piaciuta molto questa iniziativa, che del resto è una prassi nei libri pubblicati dalla Samuele Editore, come anche la presenza in quarta di copertina di un ulteriore testo che vuole essere un’apertura ad un successivo e possibile libro. Nel mio caso il tema del male a cui accenno in questa poesia, è proprio il tema su cui ora ho iniziato a lavorare. Per quanto riguarda la seconda domanda, penso questo: se immagino un corpo che desidera, immagino qualcosa di limitato, perché un corpo desidera ciò che soddisfa se stesso come corpo, ma se inverto le parole e mi figuro il desiderio che vuole un corpo, allora mi figuro il mondo creativo dell’arte. L’arte si fa in una tensione sempre alla ricerca di diventare oggetto e poi di superarlo (quadro, scultura, poesia ecc.). Immaginare il desiderio iniziale senza un corpo è riconoscere la mancanza, il vuoto, l’abisso da cui ognuno di noi proviene e da cui è accompagnato per tutta l’esistenza. Viviamo perdendo sempre qualcosa, per avere qualcos’altro e il processo è potenzialmente senza fine: perdo il primo dentino, per avere denti più forti, perdo la mano della madre, per camminare da solo ecc. Tutto questo vale anche per me, per cui posso affermare che è nel tentativo di superare il corpo che creo, nel tentativo di dimenticarlo, anche se è ben presente e fa parte di quella sinergia, difficile da spiegare, che si crea tra corpo, spirito e intelletto nell’atto creativo. Non possiamo non riconoscere che la suddivisione sopra citata è surrettizia, il corpo è comunque l’attore principale, è lui che è, è lui che sente, è lui che pensa. A noi la scelta di farci guidare da l’uno o dall’altro aspetto, o forse meglio a noi la scelta di portarlo, il corpo, dove non sempre vorrebbe andare.

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