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Lisa Ridzén anteprima. Quando le gru volano a sud

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La vecchiaia ci spaventa? La vecchiaia, il momento in cui ci ritroviamo in un corpo grinzoso, stanco e che non sempre deambula come vorremmo. È l’esplosione del mondo intero in una miriade di coriandoli, i nostri ricordi, un mare in cui vorresti tuffarti per berne nuovamente con foga ogni istante ma che invece non esiste, non più, e che sempre più spesso la mente non trattiene e fa scivolare via. Coriandoli che fuggono veloci tra le dita e si perdono senza che si riesca ad afferrarli, talvolta senza che si riesca neppure a riconoscerli come propri. Colori perduti. Persone smarrite.

Lo sa bene Bo, ottantanove anni, protagonista di Quando le gru volano a sud di Lisa Ridzén per Neri Pozza. Vive da solo con il suo cane Sixten dopo che la moglie Fredrika è stata ricoverata in una residenza per persone affette da demenza. Quattro volte al giorno gli assistenti domiciliari – tra i quali Ingrid a cui è molto affezionato – si recano a casa per accudirlo e lavarlo, per preparargli i pasti e fare due chiacchiere, interrompendo la sua solitudine. Il figlio Hans è sempre molto impegnato con il lavoro ma si occupa di riempirgli il frigorifero in abbondanza, non capendo che ciò di cui avrebbe bisogno Bo è che Sixten gli restasse accanto anche se non è più in grado di accompagnarlo nelle passeggiate. L’intento di Hans è certamente di proteggerlo con scelte razionali e di buon senso per l’età così avanzata, ma facendo ciò non considera gli effetti collaterali che queste scelte potrebbero avere sul padre:

Ho iniziato a chiedermi perché è andata com’è andata. Rifletto su mia madre e sul vecchio come non ho mai fatto prima. Più di tutto rifletto su Hans, però. Non voglio che tra noi finisca come tra me e il vecchio. Poi però lui ha cominciato a menarla su Sixten e quando salta fuori questa storia mi imbestialisco al punto che non so più dove girarmi. Perché se mi porta via Sixten non posso rimettere le cose a posto, per la miseria.”

Il romanzo si presenta come un incessante dialogo interiore di Bo con l’amata moglie in cui si alternano i loro ricordi di vita comune con quelli di lui bambino nella sua famiglia d’origine, ed emerge il dramma del rapporto con il padre, mai chiamato per nome ma sempre e solo con l’epiteto de “il vecchio”. Lui le racconta il timore di aver agito in modo non consono con il proprio figlio, di aver sbagliato nel suo ruolo di genitore e le esprime in modo accorato il suo profondo desiderio di lasciare ogni cosa al posto giusto quando verrà il momento della dipartita.

Un uomo solido e onesto è stato Bo nella sua intera esistenza, un gran lavoratore che ha gioito della campagna in cui viveva e del focolare domestico, doni che la vita gli offriva con semplicità. Ora, nel suo discorso intimo e a tratti sofferente, riesce a esprimere un lato inconfessato e tenero che per pudore non si era mai mostrato durante il matrimonio:

Sebbene non sia certo la prima volta che mi aiuta, mi vergogno. Conservare in un barattolo uno scialle della propria moglie affetta da demenza per ricordare il suo odore è patetico, in fin dei conti. Per questo solo Ingrid ne è a conoscenza. Mi vergognerei anche davanti a te. Non eravamo i tipi da dirci a vicenda parole affettuose. Non ne avevamo bisogno.”

La fluidità di scrittura della Ridzén e la sua limpidezza nel toccare gli argomenti, anche i più penosi e gravosi emotivamente, lontana da qualsiasi mistificazione nel mostrare le fatiche del suo protagonista, con una descrizione lucida e mai edulcorata della quotidianità che sta vivendo, grazie a questa capacità di narrazione l’autrice sospinge il lettore a entrare in immediata empatia con le vicende di Bo, a fare proprio il suo personaggio, senza filtri o protezioni. E lui non se ne renderà immediatamente conto ma, pagina dopo pagina, percepirà sulla propria pelle la callosità e la ruvidezza delle sue mani, respirerà con il medesimo affanno e soffrirà la sua tosse persistente mentre gli riempie la gola di catarro; farà propri i suoi pensieri mentre divengono un turbine vorticoso tra la realtà circostante e la sua evidente mancanza di autonomia fisica, ogni giorno sempre più marcata.

Bo, impigliato e fluttuante tra i ricordi del passato che lo sovrastano e inteneriscono e il desiderio di futuro che ancora persiste fortemente in lui: cerca risposte a dinamiche familiari dolorose, cerca la compassione e un riscatto del proprio vissuto. Cerca amore.

Essere anziani e impotenti. Vecchi. Un guscio apparentemente vuoto di cui con fatica ci si prende cura. Giorni nei quali non si è più in grado di organizzare le proprie ore, tantomeno pianificare il proprio destino. Divenire totalmente dipendenti dagli altri, in balia della loro determinazione anche quando è forza autoritaria che violenta i nostri pensieri, i nostri sogni. La difficoltà nel ribellarsi al volere altrui e far valere le proprie ragioni, anche se l’interlocutore è il proprio figlio, mentre la debolezza con cui il corpo si muove sconquassa l’animo e deprime.

Sai chi sei stato, puoi ripercorrere tutta la tua vita, ma non sai con quali parole poterti definire ora, oggi. Non riesci a riconoscerti nella difficoltà delle gambe che non muovono più passi e nelle mani che non hanno forza di afferrare oggetti. E urinare nel pannolone sembra così assurdo.

La risposta è sì, la vecchiaia ci spaventa, ci sgomenta con la brutalità con cui può affliggerci. Ma è tuttavia un tempo dilatato che ci concede di perdonare ed essere perdonati. Di amare ancora. Forse.

Chiara Gilardi

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Ingrid apre il barattolo e me lo tende. Poi si gira di nuovo e continua a pulire il piano della cucina.

Inspiro attraverso le fibre dello scialle. Chiudo gli occhi e abbasso le palpebre per fermare il bruciore. Nessuno ha detto niente sul fatto che è normale se con l’età gli occhi si inumidiscono. Se le lacrime sembrano trovare una ragion d’essere in quasi tutti i ricordi.

Avevi comprato lo scialle a una fiera primaverile in città quando Hans era ancora troppo piccolo per camminare da solo. Stava nel passeggino che avevamo ereditato dai vicini al lato opposto della provinciale. Mi ricordo che aveva delle ruote molto grandi, secondo te adatte alle nostre strade sterrate. In origine lo scialle era rosso scuro, ma negli anni l’avevi aggiustato con piccole toppe di colori diversi. Se faceva freddo te lo avvolgevi più volte intorno al collo, se faceva più caldo te lo legavi sulle spalle.

«Questo non lo prendi?» ti ho chiesto quando stavi uscendo dalla nostra porta d’ingresso per l’ultima volta, dopo che Hans ti aveva aiutata a preparare la valigia per Brunkullagården.

Ti sei girata e per un attimo ho creduto che fossi con me, che dicessi grazie e sorridessi come facevi quando ti ricordavo qualcosa che avevi dimenticato, ma quello che mi hai rivolto era uno sguardo interrogativo. Come se avessi in mano un oggetto estraneo.

Non oso tenerlo fuori dal barattolo troppo a lungo, perché voglio che l’odore duri il più possibile. Adesso tu sai di tutt’altro. Ti hanno cambiato i saponi e le creme. La demenza non ti ha modificato solo il cervello.

Appallottolo lo scialle e riesco a riavvitare il tappo: è più facile che aprirlo. Metto il barattolo sul tavolo perché Ingrid possa chiuderlo più forte e appoggio la testa sul cuscino.

Il rumore di Ingrid che lava i piatti è come una ninnananna. Mi perdo nel fuoco e quasi non mi accorgo che dice ciao e si chiude la porta d’ingresso alle spalle.

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Lisa Ridzén, Quando le gru volano a sud, tr. Laura Cangemi, Neri Pozza, pp. 336, euro 20,00, ebook euro 9,99.

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