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Diomede Milillo anteprima. Amore negli Stati Vaticani

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Tra le ombre dell’Inquisizione e i sussurri della rivoluzione, Amore negli Stati Vaticani è il nuovo romanzo storico di Diomede Milillo, (Il Seme Bianco – Editrice Roma 2025, pp. 185, € 18,50). Un affresco vivido e coinvolgente dell’Italia preunitaria, tra intrighi politici, tensioni religiose e amori senza tempo.

Già autore di saggi di rilievo, tra cui L’opinione pubblica e la storia e Pace o pacificazione? Diomede Milillo torna alla narrativa con un’opera che unisce passione e pensiero, storia e immaginazione.

Riflessioni taglienti: «Avete visto: il popolo siciliano, quello piemontese, veneto, papalino, eccetera. E che hanno in comune? Niente oltre l’analfabetismo e la secolare abitudine di obbedire ai propri reucci, regine, reginette e signorotti vari. Neanche la lingua hanno in comune. Metteteli insieme e nessuno capisce una parola dell’altro. Ed è questo il popolo che ci libererà dalle Grandi Potenze che usano l’Italia come privato loro campo di battaglia?».

Privilegi d’altri tempi: “La consacrazione sacerdotale non è un semplice vestito, è un mutamento ontologico dell’essere, con essa si acquistano diritti superiori a quelli dei laici e si diventa, anzi si incarna, si è Chiesa, il tramite dell’Uomo con Dio”.

Il disincanto politico: “Libertà? Libertà di chi, da chi, da cosa? Credono di essere il sale del mondo, di capire solo loro e di detenere solo loro la verità, ciò che chiamavano verità. Giocano alla rivoluzione e nel Cilento sono stati ammazzati da quello stesso popolo di analfabeti che pretendono di liberare, un popolo la cui bestialità lui in vicolo Montecalvario l’aveva vista”.

Ambientato nel 1823, in piena Restaurazione, il romanzo intreccia vicende personali e grandi eventi storici: sullo sfondo degli Stati Vaticani, tra sogni rivoluzionari e rigide gerarchie ecclesiastiche, si muovono Monaldo, Elisabetta e la coraggiosa Cia. Un viaggio che attraversa l’illusione cavalleresca e porta alla riscoperta di valori essenziali, al di là di ogni codice sociale.

Con uno stile raffinato e appassionato, Milillo dà voce a personaggi indimenticabili, tra cui spicca il cardinale Genga, futuro Papa Leone XII, offrendo una narrazione densa di spiritualità, passione e riflessione storica.

Un’opera che unisce il rigore della ricostruzione storica all’intensità del romanzo, capace di affascinare lettori alla ricerca di emozioni autentiche.

È una storia di amori proibiti, ideali rivoluzionari e riscoperta spirituale, che fa vibrare le corde più profonde dell’anima. L’autore racconta con riflessioni profonde ed attuali lo spirito italiano di ieri e di oggi e la sua straordinaria e disillusa vitalità.

Carlo Tortarolo

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Geremia uscì dal portone listato a lutto e vide arrivare Monaldo, aspettò e: «Sì, don Vincenzo è qui, ma marchese avete sbagliato veste» disse con un esagerato inchino.

«Ma non lo sapevo, ero all’incoronazione. Tu… tu dovevi avvertirmi».

«Ma l’ho fatto. Mi sono tanto raccomandato con Attilio».

«Attilio? Ma se è partito per Parigi».

«Lo so, ma prima deve aver messo in bella mostra il mio biglietto».

«D’accordo, d’accordo» e si girò ed entrò nel portone. Accidenti! Geremia sempre lo confondeva.

Troncare di netto era l’unico modo per ricordare a quel misero suddiacono che lui era il marchese di San Casciano dei bagni e figlio del principe Tullio. Come poteva abbassarsi a discutere con lui e addirittura per strada?

Geremia era un bel giovane, di una bellezza grezza ingentilita da modi acquisiti con l’attento e continuo contatto con il gran mondo. Sotto un’aria mansueta covava però odi e impulsi di rivalsa. Si vergognava delle sue origini e per non contaminarsi evitava persino di incontrare il padre, un fattore nei latifondi del conte Cini Cammarata che con grandi sacrifici l’aveva mandato a studiare dai Pallottini. Diventato suddiacono era entrato nelle grazie di don Vincenzo.

Ma non per questo, anzi proprio per questo odiava tutti.

Diventerò mai prete consacrato per fare quello che mi pare? Mi tocca intanto inchinarmi, sfacchinare, sorridere, strisciare e anche davanti a quello stupido di Monaldo che se volesse diventerebbe oggi stesso vescovo senza passare prima per diacono, chierico, sacerdote, arciprete e quant’altro d’accidenti vogliono.

Per forza, è figlio dell’alta nobiltà antica. Li odio, oh quanto li odio. Loro sono i padroni della morale, della saggezza, della giustizia e persino della religione, sono i ‘Signori e Padroni’, puliti, lavati, castrati e unti dallo Spirito santo. Ed io? io non ho più neanche il diritto di chiamarmi cittadino.

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