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Campione Gringo

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Se Trump costruirà il suo muro dovremo appiccicare degli specchi dalla nostra parte, in modo da vederci riflessi e sognare finalmente noi stessi, non loro.”

Liborio ha sedici anni, o diciassette, diciotto forse. Nessuno lo sa, lui per primo. Suo padre non ha una faccia, sua madre è morta poco dopo averlo dato alla luce e la sua “famiglia” è una matrigna che farebbe sembrare quella di Cenerentola una novella Mary Poppins. Non ha niente, se non la certezza di un sole spietato sopra di lui, che ogni giorno sorge sulla sua testa a ricordargli che si trova su questa terra e che, per arrivare a un qualche domani, dovrà sopravvivere in una lotta quotidiana piena di miseria e violenza. Nell’ennesima rissa, cercando di difendersi dall’aggressione di un coetaneo, inavvertitamente, lo uccide. Il cerchio di una vita tanto breve quanto maledetta dal destino sembra chiudersi come migliaia di volte accade a tanti poveri e giovanissimi messicani. Un ennesimo fatto di cronaca al quale, con ogni probabilità, nessuno farà caso in un Paese in cui la morte è, ormai, soltanto folklore e pretesto per stilare statistiche agghiaccianti. Ma Liborio non è un ragazzino qualunque. Nei suoi geni maledetti, l’istinto di lotta è talmente radicato da spingerlo alla più folle delle imprese: attraversare il confine più pericoloso e sorvegliato del mondo per fuggire in America. Ce la fa dopo un’epica traversata, che dalla calura impossibile del deserto lo porta a superare a nuoto il temibile Rio Bravo e a ritrovarsi nella terra degli yankees. È da qui, dove è soltanto l’ennesimo mangiafagioli sfruttato e brutalizzato dal suo Chief (uno zotico gestore di una squinternata libreria), che ci racconta tutto. E naturalmente, non riesce a tenersi lontano dai guai e dal richiamo selvaggio della strada, che però, stavolta, gli regalerà due scoperte inaspettate: l’amore e la consapevolezza di avere la dinamite nelle mani. Due strumenti per una redenzione che, sia chiaro, non ha nulla a che fare con il tanto decantato american dream.

Arrivati a pagina 332 di questo libro, “Campione Gringo” (Rizzoli, 2017, €18) di Aura Xilonen, la domanda non può non nascere spontanea: ma davvero una diciannovenne è stata in grado di concepire un’opera prima come questa?

Interrogativo legittimato non soltanto da una storia di quelle che sanno commuovere nella loro disperata ferocia, ma da una pirotecnia linguistica (egregiamente resa da Bruno Arpaia in traduzione) di sconcertante efficacia, nella quale il pidgin parlato dai neo-immigrati messicani giunti negli Stati Uniti si trasforma in un originalissimo pastiche letterario che afferra per il collo il “malcapitato” (benedetto!) lettore, scuotendolo con meravigliosa violenza. Impossibile resistere all’espressionismo formale di questa ragazza, che, alla mera destrutturazione di un codice, preferisce una geniale ristrutturazione del medesimo giocando la doppia carta della tenera e fantasiosissima trivialità, frastagliandola con affondi lirici di pura lucentezza adamantina. Il risultato è un prodigio di originalità che farete fatica a dimenticare, soprattutto per l’equilibrio dei registri usati, confluenti in un nuovo slang letterario che ha il raro dono di restituirsi, nello stesso tempo, comico e tragico. Esattamente quello di cui si sentiva il bisogno per parlare di un argomento, quello dei migranti, che nella sua drammatica e purtroppo eterna attualità, rischia spesso di trasformarsi in un terreno di costanti e fastidiosi inciampi retorici per uno scrittore. Dall’alto della sua prepotente ispirazione, la Xilonen riesce poi a organizzare il plot del racconto con una struttura estremamente “immaginifica” (nel senso più ejzenstejniano del termine), dimostrando di aver perfettamente introiettato nella suo modo di fare diegesi i principi del montaggio cinematografico, che ha assimilato nella sua carriera di giovane studentessa della settima arte e che ha immesso nella sua scrittura con la naturalezza di un affabulatore di lungo corso.

Caso letterario già tradotto in moltissime lingue, “Campione Gringo” sarà il classico libro che, a prescindere dall’età, vi farà voglia di restarvene da soli chiusi in una “facching stanzetta”, per dirla con l’autrice, a seguire le peripezie di un antieroe, un po’ Piccolo Principe, un po’ Carlos Zarate (con ogni probabilità, il più grande picchiatore nella storia del pugilato moderno, perlomeno nelle categorie più leggero. E, of course, messicano. ndr), di cui non riuscirete a non innamorarvi.

Da comprare prima di subito!

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