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Alfredo Speranza anteprima. Rattatata

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Arriva nelle librerie domani, 10 marzo 2022, “Rattatata” il libro d’esordio di Alfredo Speranza, edito da Nutrimenti, finalista Premio Calvino 2021 e menzione speciale della Giuria. L’autore, nato a Roma negli anni’50, ingegnere elettronico, manager prima e imprenditore dopo, mette in “circolo” molteplici storie che partono e ritornano su se stesse in un flusso “orbicolare”. L’inizio è la fine e la fine è l’avvio a Porto Giordano “Da una parte gli orti e le palazzine, dall’altra il prato di Bruno, lo sfasciacarrozze. Gli appartamenti liberi puzzavano di chiuso ed erano inondati dalla luce morbida che scendeva da Monte Mario. Sul terrazzo dell’appartamento al terzo piano, mentre guardavamo il Tevere, acqua lenta fangoso marrone, mi ha detto che lì ci sono dei topi, ma che uno ci fa l’abitudine.” Sullo sfondo una Roma poco conosciuta e ai margini. In primo piano l’incontro tra lo Scrittore e la Ratta con “un unico occhio nero puntuto, colmo di una paura che noi abbiamo attribuita a quella rovinosa caduta, ma che in realtà era dovuta alla tragedia che sta per abbattersi sui ratti di Porto Giordano.” Il primo non soddisfatto del successo ottenuto, che è “successo”, a sua veduta, per un artificio dell’editore, colleziona e intreccia storie di sorprendente umanità alla ricerca di una forma nuova del suo romanzo. La seconda, la Ratta, e il suo popolo da salvare dall’esondazione delle acque del Tevere, a detta dello stesso Speranza, come tutti gli animali “portano direttamente alle ragioni ultime della vita e alla sorpresa al lettore”.

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Uno spazio per uomini e ratti

E c’è questo posto, un’isola dentro Roma, che si chiama Porto Giordano: tre palazzine e una corta stradina che corre per tutta la sua lunghezza, tra la tangenziale alle pendici di Monte Mario e il Lungotevere Flaminio. Ha la forma di una mandorla ed è leggermente sotto il livello del fiume, invisibile dalle due strade dove scorre un traffico ininterrotto. Unico accesso è un corto svincolo a gomito che dal Lungotevere attraversa un vecchio cancello arrugginito seminascosto da rovi e da canne.

Porto Giordano.

Tre palazzine anni Trenta su un lato, alle spalle delle quali una volta c’erano degli orti, e sull’altro, oltre la stradina, un prato con una baracca circondata da pini e cespugli di rovi e lentisco, dove vive e martella Bruno lo sfasciacarrozze.

Le villette, color ocra, di dimensioni ridotte, tre appartamenti ognuna, uno per piano, ostentano una qualche pretesa d’eleganza. Le finestre con un timpano triangolare e due colonnine ai lati, e qua e là sull’intonaco, senza apparente simmetria o necessità costruttiva, formelle di gesso in rilievo: fiori, frutta, ghirlande.

Le facciate sono tagliate orizzontalmente da due bianche strisce segnapiano. E su ognuno dei portoni d’accesso campeggia un cartiglio di malta arricciata alle estremità dove svolazzano abbracciati putti grassocci. Sinceris Janua Numquam Claudor Amicis, c’è scritto.

E ci sono, a Porto Giordano, due anziane sorelle, Faustina e Lidia, le proprietarie delle tre palazzine, della strada, degli orti e del prato.

Faustina.

Con i suoi cinquantanove anni è la maggiore, e alle prime luci dell’alba apre il cancello del loro giardino e trascina una seggetta sul marciapiede. Con un sospiro siede a controllare, lo sguardo malevolo e strabico, chi entra e chi esce; chi va per la sua strada. Se mai veda le tracce di quei sudici ratti.

Lidia resta dietro il cancello; sbircia la via, il prato e gli orti attenta ai fruscii dei suoi topi amorosi, gorgogliando una risatina ebete che è la sua colonna sonora.

Questi schifosi!”, esclama Faustina appena seduta.

Il suo sguardo sprizza cattivo da due occhietti un po’ troppo vicini che cercano, accanto alle caditoie, ai chiusini, sul marciapiede, le tracce che i ratti hanno lasciato durante le scorrerie notturne. Le labbra tirate a odio e orrore di quelle bestie che immagina nascoste con le code erettili e le minuscole orecchie a triangolo.

È grassa Faustina, con un corpo a pera insaccato in lise vestaglie fiorate, sotto le quali porta maglie di lana o camicette di cotone che hanno ancora l’etichetta dello spaccio militare dove le prendeva suo padre il Geniere ai tempi che c’era ancora l’Impero. Ai piedi porta pantofole di lana infeltrita senza più forma e colore.

E così, con questa bruttezza, Faustina si presenta al mondo: a metà tra un’arpia e un’inferma, celando l’anima afflitta e bloccata sullo stretto crinale tra ciò che si può ancora sperare e ciò che invece è ormai dietro le spalle. Un crinale che il padre, militare del Genio del Regio Esercito, aveva continuamente attraversato con noncuranza, senza avvedersi della trappola in cui infilava la moglie e le figlie.

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