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Jurij Tynjanov anteprima. La morte del Vazir-Muchtar

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Con La morte del Vazir-Muchtar, in uscita oggi per i tipi di Edizioni Settecolori (traduzione di Giuliana Raspi), Jurij Tynjanov racconta, unendo una narrazione a tratti poetica ma anche ironica, Alexandr Griboedov, ministro russo in Persia, la cui carica in quel paese era quella di Vazir Muchtar. In un panorama sociale e politico segnato profondamente dal tradimento, dal servilismo e dall’ambiguità, il profilo di eroe tragico di Griboedov si impone con forza per la sua enigmaticità: autore di una commedia tanto famosa quanto discussa come Che disgrazia l’ingegno!, il letterato fu prestato alla politica benché fosse sospettato di “sentimenti e amicizie liberali”. Tornato in Russia da Teheran, Griboedov raggiunge l’apice della sua fama di diplomatico, dopo essersi “procurato” una bozza del Trattato i Turmanchay, ovvero il documento che avrebbe costituito il primo passo nella direzione di un protettorato russo sulla Persia. Ma è proprio in questo momento di fama e di successo che il fato lo spingerà nuovamente verso Teheran, dove si compirà tragicamente il suo destino. Lungo il percorso di amori e avventure del diplomatico, scorre la galleria di umanità varia della Russia dell’epoca – ritratta abilmente dall’autore, fatta di aristocratici pietroburghesi, letterati, militari, commercianti, funzionari e, immancabili, le spie. In territorio persiano invece, spiccano i dignitari della corte dello Scià, principi bellicosi, eunuchi e disertori.

Questi elementi compongono un affascinate romanzo storico scritto da quello che è considerato il teorico del formalismo russo. Imperdibile.

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Agli uomini degli anni Venti era toccata una morte gravosa, perché il secolo era morto prima di loro. Negli anni Trenta essi ebbero un vero intuito circa il momento di morire.

Per morire sceglievano, come i cani, l’angolo più adatto. E prima della morte non esigevano né amore, né amicizia. Che cos’era l’amicizia? Che cos’era l’amore? Essi avevano lasciato cadere l’amicizia chissà dove, nel decennio precedente, e di quella era rimasta soltanto l’abitudine di scrivere lettere per intercedere in favore degli amici colpevoli: a proposito, allora di colpevoli ce n’erano molti.

Si scrivevano reciprocamente lunghe lettere sentimentali e s’ingannavano l’un l’altro, come prima avevano ingannato le donne. Avevano preso in giro le donne degli anni Venti e non facevano affatto mistero dell’amore.

Talvolta si battevano o morivano con un’espressione che sembrava significare: “Domani andrò dalla Istomina”. In quell’epoca si usava il termine “ferite del cuore”. A proposito, ciò non impediva i matrimoni per interesse.

Negli anni Trenta, i poeti cominciarono a scrivere alle stupide beltà. Le donne ostentarono vistose giarrettiere. Il libertinaggio con le ragazze degli anni Venti sembrava onesto e infantile, le società segrete sembravano “centinaia di sottotenenti”. Beati coloro che morirono come cani negli anni Venti, come cani giovani e orgogliosi, con le vistose basette rosse! Come era terribile la vita di coloro che si trasformavano, la vita di quelli degli anni Venti, il sangue dei quali si era trasferito altrove! Sentivano su di sé gli esperimenti diretti da una mano estranea, le dita della quale erano ferme.

Il tempo fermentava. Il tempo fermenta sempre nel sangue, in ogni periodo c’è una particolare forma di fermentazione. Negli anni Venti ci fu una fermentazione simile a quella del vino: Puškin.

Griboedov fu una fermentazione dell’aceto.

E poi, cominciando da Lermontov, si propagò, come il suono di una chitarra, attraverso le parole ed il sangue, un fermento ammuffito. L’odore dei profumi più raffinati si fissa con la decomposizione; nei rifiuti (l’ambra è il rifiuto di un animale marino) anche l’odore più sottile è più di ogni altro vicino alla puzza. Ecco: già ai nostri giorni i poeti si sono dimenticati persino dei profumi, e vendono gli stessi rifiuti come se fossero aromi.

Ora io allontano con la mano l’odore dei profumi e dei rifiuti. Il vecchio aceto asiatico ristagna nelle mie vene e il sangue scorre lentamente, come attraverso i vuoti degli imperi devastati. Un uomo, non alto di statura, giallo in viso e compassato, occupa la mia immaginazione. Egli è coricato, immobile; i suoi occhi sono lucidi dopo il sonno. Tende la mano verso gli occhiali, verso il tavolino. Non pensa, non parla. Non era stato ancora deciso nulla.

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