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Colson Whitehead. Il ritmo di Harlem

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Colson Whitehead ha una bacheca di trofei che farebbe invidia a Pete Sampras. La maggior parte degli scrittori del suo paese potrebbe uccidere senza troppi rimorsi pur di averne la metà.Fin da quando ha esordito, nel 1999, se non ha vinto un premio fondamentale ne è stato uno dei finalisti. Premio PEN/Hemingway; due Pulitzer; un Arthur C. Clarke e tutta un’altra serie di premi più o meno prestigiosi. Questo fa di Whitehead uno dei più importanti scrittori americani contemporanei e certamente il più versatile.

Se in un romanzo come I ragazzi della Nickel aveva voluto rispolverare gli scheletri, mai del tutto sepolti, della storia americana e affrontare il tema del razzismo, della disparità di trattamento tra bianchi e neri, facendo di quello un racconto soprattutto politico, oltre che di una dolorosa pagina della storia del suo paese, con il nuovo romanzo Il ritmo di Harlem, edito da Mondadori e tradotto da Silvia Pareschi, Whitehead si rilassa, si rinchiude in una zona di maggiore conforto, la Harlem dei suoi ricordi, il quartiere dei suoi genitori, e si diverte.

È questo un racconto compatto, solido, in cui l’autore ci espone una carrellata di personaggi comici e drammatici, grotteschi, come spesso avviene nelle più classiche delle commedie, dove sotto un velato sorriso si nasconde anche il sapore amaro della consapevolezza e della denuncia perché, per quanto provi a rilassarsi, a scrivere qualcosa di diverso e persino meno impegnato dei precedenti e fortunatissimi lavori, Whitehead ci parla comunque di quei neri che sentono incombere il fantasma dei bianchi, che non riescono a sottrarsi dal rancore e dal risentimento quando sono chiamati a fare i conti con la loro vita e le aspirazioni mancate.

Il romanzo narra di Ray Carney un commerciante con una moglie, un figlio piccolo e un altro in arrivo.

Sebbene faccia un po’ di fatica, è felice di essere onesto, di avere i conti a posto, di pagare le tasse. È quasi una questione di principio perché proviene da una famiglia di criminali e lui non vuole essere come suo padre.

Poi un giorno suo cugino Freddie lo mette in un casino.

Freddie è un bravo ragazzo, lui e Carney sono cresciuti insieme. Non ha molta voglia di lavorare e finisce sempre con il mettersi in qualche guaio. Cose piccole, che non danno nell’occhio da cui si è sempre tirato fuori non senza un po’ di fortuna.

Una sera un ladro più esperto, con maggiore ambizione lo tira dentro un colpo più grosso, una rapina all’Hotel Theresa, un luogo simbolo, per certi versi, perché il primo ad accettare i neri e, per questo, centro di ritrovo di tutti gli afroamericani di successo di passaggio per la città. L’Hotel Theresa è il fulcro di un certo mondo, quello criminale e quello sfavillante dello spettacolo. Facile che, in un posto simile, si finisca per derubare la persona sbagliata.

Non avendo un ricettatore di fiducia, Freddie, per fare colpo sulla banda, fa il nome di suo cugino Ray.

Per questo Carney dovrà fare i conti con gangster e gorilla, poliziotti corrotti, ma soprattutto con il proprio passato. Perché Ray è un Carney, è figlio di quella canaglia di suo padre, è cresciuto tra facce da galera e non può sfuggire al suo passato, al posto da cui proviene.

Il ritmo di Harlem è una commedia ma con un tratto shakespeariano. La battaglia di Carney contro se stesso, con le proprie radici, con suo padre fa di lui un personaggio complesso e profondo.

Ray Carney si muove in quella zona pericolosissima tra la rivalsa e il rimorso.

Rapido, divertente e con uno stile cinematografico, Il ritmo di Harlem ricorda Soldi neri & ladri bianchi di un colosso della letteratura afroamericana come Chester Himes, ma anche lo Steve Monroe di Chicago, 1957.

Se vi piace il Jazz, le sparatorie, i personaggi loschi e i vecchi i film alla Ocean’s Eleven questo è, senza ombra di dubbio, il romanzo che fa per voi.

Pierangelo Consoli

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Colson Whitehead, Il ritmo di Harlem, Mondadori, pag. 356, euro 20.

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