Ne scriverai? di Herman Koch per Neri Pozza, non è esclusivamente il racconto di una malattia, né tantomeno la narrazione del dolore umano davanti a un referto medico che inevitabilmente travolgerà la propria esistenza. È piuttosto l’intreccio di vari accadimenti che si snodano dal presente sino ad arrivare all’Herman ragazzo, senza seguire mai un esplicito percorso logico temporale: come l’interiorità dell’essere umano che scorre con balzi alterni, procedendo e ritraendosi, in un mutamento continuo che modifica rapidamente forma alle azioni del protagonista.
Nella medesima pagina, ieri e oggi si incastrano alla perfezione e, adagiati entrambi sulla carta, si rincorrono tra loro. Ogni soggetto (o oggetto) osservato o semplicemente visto dagli occhi di Koch diviene un nuovo stimolo per raccontare un evento del passato e farne una disanima alla luce dell’attuale consapevolezza. Un persistente andirivieni di immagini lontane che balzano agli occhi con vividezza, come fossero accadute oggi: mai troviamo situazioni sbiadite o in penombra.
Ma esiste in questa temporalità anche un tempo sospeso, non meno importante, un’assenza di tempo, che così viene sottolineata:
“Come dicevo, non sfoglio mai le riviste esposte su un tavolino, non mi porto mai un libro. Il godimento sta proprio nel passare del tempo. Nell’assenza di tempo.”
Presente e passato quindi si avviluppano e poi si districano, si quietano, come detto, senza logica alcuna (apparente) ma agganciandosi a sensazioni e immagini che modellano via via la visione del protagonista, la sua stessa quotidianità. C’è la madre e i tradimenti del padre con la loro famiglia allargata, c’è sua moglie e suo figlio e il suo desiderio di diventare scrittore; e ancora, le sue riflessioni di ragazzo e il successo che dopo tanto attendere è finalmente arrivato con le sue innumerevoli presentazioni nelle biblioteche internazionali.
Anche i più piccoli aneddoti a cui si fa riferimento non vengono mai sottovalutati e per Koch il raccontarli qui, in questa sua preziosa raccolta di vita, manifesta visibilmente il suo desiderio di comunicare, di cercare analogie, fatti, esperienze: forse il ricercare nelle sue stesse parole nuove motivazioni esistenziali. Come se la malattia gli stesse chiedendo (in modo subdolo?) un resoconto degli anni, tanto che ora lui è conscio di non aver più timore alcuno nel mostrare la propria fragilità di uomo che, con uno sguardo ironico e spesso dissacrante, sa mettersi a nudo avendo la certezza che non potrà per nessun motivo essere frainteso dal suo pubblico.
Mai troviamo accenni di auto commiserazione tra le pagine né la descrizione di una sofferenza fine a se stessa. Certo, ci sono anche le sue lacrime (poche) ma narrate per come si sono realmente manifestate, rotolate (finalmente) dagli occhi ma non utilizzate con l’intento di immalinconire il lettore o creare atmosfere drammatiche: si sono mostrate e pertanto è necessario raccontarle a esclusivo beneficio di verità.
Per questo il focus della narrazione non è mai il tumore con metastasi dell’autore benché di quello si stia scrivendo e da lì si sia partiti. È un girargli intorno, è osservarlo quasi con indifferenza, forse con un pizzico di forzato disinteresse e di distanza, mentre si continua a saltare tra i ricordi di epoche diverse e con episodi i più disparati: quasi un gioco con il suo lettore per stuzzicarlo, fargli intuire, presagire, cosa accadrà nella pagina successiva:
“A volte mi sembra di non essere più da nessuna parte, nel senso che non ci sono realmente. Il paesaggio è rimasto lo stesso, ma è come se non lo vedessi più. Come se tra me e quel paesaggio si fosse interposto qualcosa: una finestra, o un vetro, che mi consente di vedere il paesaggio, ma non più di toccarlo, né permette al paesaggio di toccare me.”
Continuare a vivere e lasciare che ogni cosa segua il proprio corso. Osservare ciò che c’è intorno, guardare e riguardare il mondo là fuori, seduto a una finestra o davanti a un mare poco importa, ciò che è importante è esserci. E vivere. Vivere per fermarsi. Vivere per restare immobili e scrivere. Affidare tutto se stesso alla parola e appoggiarsi alla pagina scritta per farsi sostenere intimamente. Fortemente. Totalmente.
Perché questo significa aver già sconfitto il dolore.
“Spesso nelle belle giornate sono lì, in terrazza, o seduto a tavola dietro il vetro bagnato di pioggia quando c’è brutto tempo. È una vista a cui non occorre aggiungere nulla. Una vista come un mare o un caminetto. Come se guardassi le onde o le fiamme, così guardo il campo. Non leggo un libro, non ce n’è bisogno: va bene così com’è. A volte mi prendo una birra. Guardo il panorama che cambia colore nel pomeriggio. E dopo la seconda birra cambio colore anch’io. Allora va tutto bene. Finalmente ci sono. Sono qui e in nessun altro posto.”
Chiara Gilardi
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Decidemmo di andare al caffe Polder. Vicino a casa, ma non proprio a casa. Non so di cosa avessi paura di preciso, ma lì, sulla circonvallazione di Amsterdam, la cosa mi sembrava

ancora del tutto accettabile. La vita andava semplicemente avanti, era quello il messaggio di tutte quelle macchine che cambiavano carreggiata, della nostra, guidata da me, che riuscivo semplicemente a mantenere in carreggiata senza che toccasse il guardrail.
A casa avrei infilato la chiave nella toppa e richiudendo la porta mi sarei reso conto immediatamente che era cominciata una nuova realtà. Proprio nel mondo che mi era consueto la rigida divisione tra presente e futuro sarebbe risultata visibile. Avrei visto la nostra casa e la mia (temporanea!) presenza in quella casa con occhi diversi – probabilmente per sempre.
Ordinammo un uovo strapazzato e una frittata. Con una birra. Senza esserci chiesti prima se magari non fosse troppo presto. Anche il termine ≪birretta di consolazione≫ quel giorno aveva un significato nuovo, soprattutto dopo la seconda.
Ripercorremmo ancora una volta la conversazione con il dottor Francken. Mi resi conto che Pablo ricordava molto più di me. Era stato cosi anche le volte precedenti.
Assaggiammo le uova senza avere appetito.
≪Francken non sembrava molto contento≫ disse. ≪Le volte scorse ci salutava sempre con un sorriso quando eravamo ancora nella sala d’aspetto, ma oggi non ha quasi avuto il coraggio di guardarci≫.
Era vero. Io non me n’ero accorto, ma ora che cercavo di ripercorrere immagine per immagine l’ora e mezza in ospedale vidi uscire il dottor Francken dal suo ufficio per far accomodare i pazienti prima di noi, e in effetti ci aveva lanciato tutt’al più un’occhiata di sfuggita, senza cercare i nostri sguardi. Nei miei ricordi aveva un’espressione decisamente triste.
Forse è un aspetto del quale i medici non si rendono conto: che, già prima del momento vero e proprio in cui daranno una brutta notizia, dallo sguardo che ti lanciano nella sala d’aspetto puoi vedere che ti daranno una brutta notizia.
Cominciai a dire qualcosa sul fatto che magari sarebbe andato tutto bene, ma mi interruppi subito. Ci intendevamo, Pablo e io, era sempre stato così. Non potevo fare un discorsetto generico e dire che sarebbe andato tutto bene. Tutto ciò che doveva andare bene era finito un’ora prima, quando avevamo avuto la brutta notizia.
Avvertii un bruciore agli occhi, e quando guardai Pablo vidi che l’aveva anche lui. Conoscevamo tutti, lì, entrambi i proprietari. Pablo era amico del figlio di uno dei due dalle elementari. E conoscevamo per nome anche tutto il personale. Forse non era stata una buona idea andare lì a parlare della brutta notizia. Nel giro di qualche minuto qualcuno sarebbe venuto a chiedere se andava tutto bene.
Una parte di me voleva condividere ogni cosa. No, in realtà non va tanto bene, ho un tumore. L’altra parte si asciugava gli occhi con il tovagliolo e pagava al bancone.
Una volta in macchina ci abbracciammo. Non dissi nulla del tipo che non era la fine del mondo – ci limitammo a tenerci stretti a lungo.
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Herman Koch, Ne scriverai?, tr. Laura Pignatti, Neri Pozza, pp. 256, euro 19,00.