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Maurice Bardèche anteprima. Louis-Ferdinand Céline

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Uno sguardo profetico: “Altrove dichiara che nella storia degli uomini vi è certamente un progresso, che “l’uomo è sensibilmente migliore di quanto non era [in passato]”, ma che tutte le civiltà, ognuna a sua volta, “tengono nella storia per un momento la fiaccola del progresso”, poi sono fatalmente colte dalla decadenza e non sono più rappresentate che da “cari vecchi popoli”, costretti ormai a rimettere ad altri la direzione dell’evoluzione”.

Appunti di stile: “La pittura accademica ed i libri scritti nella lingua letteraria sono incapaci di provocare l’emozione. La pittura presenta la realtà sotto una falsa luce, la “luce dello studio”. Ed i libri utilizzano una “lingua morta”, che è una falsa lingua, quella dei mandarini. Gli scrittori devono dunque fare qualche hanno fatto i pittori della scuola impressionista. Devono ritrovare la lingua vera, creatrice di emozione, così come i pittori hanno ritrovato la vera luce. Ebbene, Céline è l’unico scrittore a cui sia riuscita questa traslazione. Egli è tornato allo stile parlato e l’ha reso emotivo. La nuova lingua della quale è l’inventore è lo stile emotivo parlato: “L’emozione non si lascia captare che nel parlato… Il compito dello scrittore è quindi semplice: si tratta di captare l’emozione del parlato e di «riprodurla» attraverso lo scritto, al prezzo di mille sofferenze, mille pazienze che nemmeno s’immaginano! Chiaro, eh?”.

È in libreria Louis-Ferdinand Céline di Maurice Bardèche (ITALIA Storica Edizioni 2025, pp. 322, € 29,00 a cura di Andrea Lombardi, con traduzione di Moreno Marchi).

A un primo sguardo Louis-Ferdinand Céline di Maurice Bardèche parrebbe solo l’ennesima voce in un coro già affollatissimo di biografie dedicate all’autore di Viaggio al termine della notte: un mattone in più accatastato accanto a una decina, forse venti, Céline che già gremiscono gli scaffali. E invece c’è un carburante segreto che lo fa scattare avanti: una vera “complicità” – quasi una dipendenza reciproca – fra biografo e biografato, entrambi forgiati da uno stesso sguardo ferocemente disincantato sul mondo.

Scrivere di Céline resta un terreno minato: senti alle spalle il suo ghigno pronto a sconfessare ogni aggettivo. È il pedaggio che ogni céliniano paga. Per decenni lo scrittore ha incassato le interpretazioni più disparate, dall’acrobaticamente dotto al ridicolmente balzano.

Bardèche, però, non si fa cogliere impreparato. Sa che la biografia è impastata di storia, così come la storia scolpisce i destini individuali e collettivi. E lui, insieme a Céline, quelle tempeste le ha attraversate in prima linea, talora fianco a fianco, talora su fronti divergenti ma sempre dentro lo stesso turbine.

Il risultato è un corpo a corpo fra titani: da una parte uno dei narratori più dirompenti del Novecento; dall’altra un critico-saggista tra i più acuminati, prolifici e irrequieti della sua epoca. Ne esce un ritratto che, più che aggiungere un altro Céline agli scaffali, costringe a riconsiderarli tutti.

Carlo Tortarolo

Le prime conferenze ebbero luogo in Bretagna, si cominciò a Rennes, il 10 marzo 1917, alla presenza del dottor Follet, presidente del comitato dipartimentale di Ille-et-Vilaine per la lotta contro la tubercolosi. Altre, numerose, le succedettero a marzo e poi di nuovo durante l’estate. Il maresciallo agli alloggi Destouches vi parve a suo agio, facondo, bel ragazzo, “azzimato”, auto, uniforme dell’esercito americano, una “personalità”. I giornali locali citavano le sue esibizioni, lo chiamavano “l’igienista Destouches”.

I lavori si svolsero nella primavera del 1918, quella dell’offensiva Ludendorff, che ruppe il fronte francese: la più drammatica settimana della guerra. Il 12 settembre le divisioni americane indossanti la bella uniforme de “l’igienista Destouches” furono impegnate per la prima volta nel saliente di Saint-Mihiel, che esse ridussero, lasciando sul terreno alcune migliaia di giovani morti.

Tuttavia “l’igienista Destouches” non perse tempo. I suoi esordi a Rennes erano stati brillanti, la sua facondia e la bella uniforme erano state notate da Edith Follet, la figlia del dottor Follet, ufficiale della Legion d’onore, professore di clinica medica a Rennes, medico dell’ospedale, primario chirurgo di una clinica e dell’ospedale militare e, come è stato detto, presidente dell’Ufficio dipartimentale di difesa contro la tubercolosi. Era un ometto pittoresco, autoritario, intrigante, detestato dai colleghi.

L’igienista Destouches venne invitato dalla famiglia, che risiedeva in una bella dimora del quai Richemont. Egli scrisse regolarmente a Edith durante i suoi spostamenti.

Il dottor Follet si scoprì qualche affinità con quel nuovo arrivato. Apprese con piacere dell’esistenza di uno zio Georges Destouches, segretario della Facoltà di medicina di Parigi da quindici anni, il più influente dopo il preside. Dietro i suoi consigli Louis Destouches prese una licenza di alcune settimane, subito dopo l’armistizio dell’11 novembre, imparò il latino con un prete di Rennes e diede l’esame di maturità nel corso di un soggiorno della missione Rockefeller a Bordeaux. Grazie ad un decreto nel 1923, assai favorevole agli ex combattenti, Louis Destouches passò brillantemente i due esami di maturità nell’aprile e nel luglio del 1919. Con il pezzo di carta conseguito iniziò i suoi studi medici presso la scuola di medicina di Rennes, sotto il patrocinio del dottor Follet. Spianato così il terreno, il matrimonio di Louis Destouches e di Edith Follet venne celebrato in una discreta parrocchia di Côtes-du-Nord il 10 agosto 1919. Quarant’anni dopo Céline riesumò con concisione tale periodo della sua esistenza: “Non avrei mai potuto compiere i miei studi di medicina se non mi fossi sposato. Entrai in una famiglia medica. A Rennes. Sposai la figlia di un direttore. Poi feci la mia medicina in condizioni normali, tranquillamente. Niente da dire”.

Il seguito di questa linea retta è un po’ triste. Subito dopo il matrimonio il futuro dottor Destouches s’installò al primo piano di quai Richemont, dove stabilì il suo studio, lavorandovi alacremente. Scriveva ad Albert Milon: “Lavoro come un mulo. Vedo poco mia moglie, poiché sono tanto solitario quanto indipendente e detesto la costrizione, anche sotto il suo aspetto più affettuoso”. Nella medesima lettera dice di alzarsi al mattino molto presto e di andare a dormire la sera molto tardi. È in questo periodo, sembra, che, contemporaneamente a preparare gli esami di medicina, completa la sua cultura tramite le vaste letture di cui si trovano numerose tracce, benché discrete, in tutta la sua opera.

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