Il dramma familiare: “Ogni giorno che passava, sua madre gli sembrava sempre più lontana, così come la sua vita, che ormai percepiva come una sconfitta accettata. C’erano già zone della sua esistenza che aveva assimilato a un palazzo fatiscente, di cui i proprietari, troppo attempati, avevano smesso di occuparsi.”
Il fascino letterario: “Ludovica raccontava di alcuni libri che aveva appena letto, le poesie di Sylvia Plath e quelle di Alejandra Pizarnik. Sembrava conoscere autori come si conoscono paesi lontani.”
Riflessioni sulla vita: “Ora aveva voglia di correre via, attraversare mucchi di chilometri e valicare frontiere, spingersi oltre: ma non aveva un posto dove andare. Ogni cammino lo riportava all’origine. Si svuotò le tasche, come se quel gesto potesse rimediare alla sofferenza di una fuga impossibile”.
Meditazioni musicali: “Se fossi una cantante, mi darei senz’altro al punk. Ti permette di essere creativo anche se non sei perfetto.”
È in libreria Mentre tutto brucia di Paulina Spiechowicz (Nutrimenti Edizione 2025, pp. 240, € 19).
Paulina Spiechowicz, nata a Cracovia nel 1983 ha studiato editoria e giornalismo a Roma, dove vive. Ha scritto racconti pubblicati su Nazione Indiana, Satisfiction e Patria Letteratura, oltre a testi teatrali rappresentati a Parigi e poesie, tra cui “Studi sulla notte” pubblicato da Ensemble nel 2012. Mentre tutto brucia ha vinto il premio Clara Sereni 2023 per il romanzo inedito.
Nell’estate degli anni Novanta, a Ostia, Kamil e Beatrice tornano in Italia dopo un anno trascorso in Polonia. Kamil, sedicenne, avverte la mancanza di Roma e della madre, Viola, mentre Beatrice, diciassettenne, è meno legata all’Italia. L’adolescenza porta con sé amori e rabbie: Kamil si rifugia tra gli amici, celando le sue fragilità, mentre Beatrice si innamora di Nico, un ex detenuto deciso a cambiare vita per lei.
Ambientato in una Roma affascinante e crudele, Mentre tutto brucia di Paulina Spiechowicz esplora la crescita personale dei protagonisti, affrontando le dinamiche familiari, la ricerca di sé e il peso delle scelte personali.
Roma non è solo uno sfondo, ma un elemento attivo che contribuisce al senso di oppressione e bellezza. La città rappresenta sia un rifugio sia una prigione per i personaggi, simbolizzando le loro lotte interiori.
I personaggi del romanzo sono in cerca di realizzazione in un contesto di instabilità e cambiamento. Ogni personaggio sembra essere alla ricerca di un senso di identità, appartenenza e soddisfazione personale, amore e ribellione.
È un invito a esplorare le nostre strade personali di crescita, a sfidare le aspettative e a trovare il nostro posto nel mondo, anche quando tutto sembra andare in fiamme. La scrittura evocativa e i personaggi intensi del romanzo lo rendono una lettura avvincente e profonda, capace di toccare corde emotive universali.
Carlo Tortarolo
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In lontananza una pozza di luce sul mare.

Più si avvicinavano, percorrendo la strada a bordo dell’auto di Ludovica, più l’intensità delle fiamme ne precisava la posizione: il fuoco non veniva dalla spiaggia, ma divampava lì, all’altezza del campo profughi di Castel Fusano.
Nello specchietto Beatrice scorse l’amica alla guida, i tratti sensuali le inferocivano il viso. Pawel le sedeva accanto. Nessuno dei due sembrava dar peso all’incendio. Parlavano di come sarebbe stato strano vivere separati soprattutto dopo ciò che era successo quell’estate. Lei, col solito modo di portarsi le dita alla bocca, tamburellava i polpastrelli sulle labbra mentre lui, con una voce farinosa, prometteva che le avrebbe scritto una volta arrivato in Canada.
Ludovica fermò la macchina davanti al cancello che separava la pineta dal campo. Prima si voltò verso Pawel, poi guardò lei e disse: “Ti accompagniamo dentro. Va bene, Bea?”. Scesero dall’auto, varcarono l’ingresso.
A vigilare nella cabina di controllo non c’era nessuno, e nessuno chiese loro chi stessero cercando, come accadeva di solito quando passavano a trovare Pawel. Attraversarono il campo in direzione del bungalow. Ludovica andava sicura, si vedeva che abitava i bei quartieri romani. Stava aggrappata al braccio di Pawel che, con un pezzo di liquirizia tra le labbra, a mo’ di sigaretta, aveva dimenticato le sue origini.
In quella zona, nei pressi di Ostia, in un campeggio nato per accogliere turisti, da una decina d’anni trovavano rifugio i profughi che fuggivano dall’ex Unione Sovietica. Polacchi, ma anche russi ebrei diretti in Israele, albanesi, pochi bulgari. Con la guerra nei Balcani, scoppiata tre anni prima, si erano aggiunti serbi e jugoslavi. Arrivavano in minuscole Fiat Centoventisei, in polacco le chiamavano maluch, eppure in così poco spazio riuscivano a mettere il necessario: una famiglia, qualche oggetto personale, carne in scatola, vodka e sottaceti.
L’aria era pregna di fumo, e a quel punto anche Ludovica e Pawel notarono che laggiù qualcosa non andava. Beatrice invece ci pensava da quando aveva visto il rogo: quanto stava succedendo era sua responsabilità. Avanzavano fissando le fiamme.
Ludo minimizzò: “Non è niente, che ti credi”.
“Cinque milioni di lire”, disse Pawel, e accelerò il passo.
Con il calore che aumentava iniziarono a correre, e si fermarono a pochi metri dal bungalow, dove c’era un gruppetto di ragazzi: calzamaglie nere in testa, corpi asciutti, magliette attillate e scarpe da ginnastica taroccate ai piedi.

Due di loro non si muovevano. Bloccavano l’impeto e la fuga degli altri. Di lì a poco si sarebbero sparpagliati andando a nascondersi in mezzo alle frasche, arbusti di fanerofite, muschio, gramigna; la pineta a quell’ora era una macchia densa e il cielo coperto d’ardesia. Il fuoco faceva sobbalzare di tanto in tanto i contorni delle ombre, sfocando i due, uno di fronte all’altro.
“Damme ’sta pistola, a zì”, ordinò il primo.
Beatrice si voltò verso il secondo.
Poco importava l’elastan lucido schiacciato sulla faccia, spuntavano comunque le sagome scure di labbra e naso e sopracciglia: suo fratello taceva, l’arma nella mano puntata alla testa di Nico. Mentre tutto bruciava.