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Giovanni Oro anteprima. Sonata per una luna morente

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Giovanni Oro con Sonata per una luna morente ora in libreria (Delos Digital 2025, pp. 288, € 19) firma un romanzo di bellezza e decomposizione cosmica.

C’è un punto in cui la fantascienza smette di essere un esercizio di tecnologia e diventa un’elegia. È in questo punto che scrive Giovanni Oro.

Sonata per una luna morente è la storia di un mondo che si disgrega come un corpo celeste e come una coscienza: un libro che mescola sensualità felina, guerra coloniale e malinconia post-umana.

Già l’incipit è un piccolo capolavoro di sensorialità:

I baffi di Lila fremettero leggermente, pizzicati da un aroma salmastro a cui si mescolava un altro odore, dolce e acido allo stesso tempo…”

In una sola riga Oro rovescia l’immaginario classico della space-opera in qualcosa di viscerale e terrestre: la Luna non è più la finestra sul sogno, ma una carcassa che puzza di sale e di morte.

La protagonista Lila, creatura dalla coda rosso acceso, “perfetta per suonare il dodecacembalo”, è una sopravvissuta che tenta di ricordare mentre il suo mondo viene inghiottito dagli invasori umani. Il suo passato musicale diventa un lutto, una vibrazione sospesa:

Ricordi, esisteva qualcosa di peggiore?”

Una frase che pesa come una condanna biblica in un universo che ha dimenticato la pietà.

In parallelo c’è Jacques Montaigne, soldato terrestre con un contact neurale di nome Ottavia. La sua è la voce della civiltà che crede di portare aiuto e invece diffonde l’infezione del controllo:

Benvenuto a miciolandia, Bullet!” dice il suo caporale, e in quella battuta – mezzo sarcasmo, mezzo imperialismo – sta tutto il destino della missione umanitaria.

Oro intreccia due linee narrative come due correnti di un’unica marea: la decadenza degli alieni e la follia lucida degli uomini che pretendono di salvarli.

La lingua è precisa, sensuale, cinematografica. Ogni scena respira in luce metallica e cenere: “Era come se quelle tre luci diverse, il Padre, il fuoco e la morte, si contendessero quello spazio infinito, ognuna a suo modo, indifferente a quello che realmente avrebbero voluto i sinibi”.

Ci sono pagine che ricordano Ballard e Ursula Le Guin, ma con un respiro musicale dell’autore e un ritmo da requiem.

Sonata per una luna morente è un romanzo politico mascherato da epopea interplanetaria, una denuncia dell’arroganza coloniale e un atto d’amore verso ciò che resta del sacro. Non è solo fantascienza: è metafisica del disastro.

Un libro per chi ama la bellezza anche quando si decompone, per chi sa che, a volte, anche le stelle muoiono cantando.

Carlo Tortarolo

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I baffi di Lila fremettero leggermente, pizzicati da un aroma salmastro a cui si mescolava un altro odore, dolce e acido allo stesso tempo, qualcosa che il suo cervello intorpidito non riusciva a processare.

Acqua, si trovava vicino al mare. Tenne gli occhi chiusi mentre il lento sciabordare attirava il suo udito facendole ruotare le orecchie, e con quel rumore delicato, a cui presto si unì quello più forte dei versi delle petule, Lila coltivò l’illusione di essere tornata piccola, di essere tornata a quell’epoca felice prima del Contatto e del grande caos, prima della guerra, dell’assedio, e della distruzione di tutto ciò che conosceva.

Si illuse di essere davanti alle scogliere di Malsiri, con l’acqua che cullava il suo corpo abbandonato, la coda che oscillava pigramente spingendola con delicatezza attorno allo skiff. Presto sua madre l’avrebbe chiamata e lei si sarebbe affrettata, avrebbe nuotato con forza usando le mani e la coda, sarebbe risalita a bordo con il pelo impregnato di salsedine, felice e pronta a mangiare qualunque cosa suo padre avesse fatto cucinare all’equipaggio. Si vide adulta, con Ilu che le nuotava accanto. Presto avrebbe iniziato a morderle il collo e solleticarla con la coda, prima di fare l’amore sulla spiaggia della loro villa a Kasuta.

Purtroppo, erano solo sogni. Il suo cervello le urlava che erano solo ricordi, oramai talmente sbiaditi da essere solo disegni sull’acqua.

Teluva aveva effettuato tre rivoluzioni attorno al Padre dall’ultima volta che lei e Ilu erano stati a Kasuta. Per quanto ne sapeva, la sua villa, il luogo di tanti momenti meravigliosi con lui e Fara, era stata ridotta a un cumulo di macerie da un bombardamento dopo che le forze della Coalizione l’avevano trasformata in ospedale. Altre due rivoluzioni erano trascorse dall’ultimo incontro con Ilu, quel dolce abbraccio fra le loro code appena prima che si infilasse nel minuscolo tre ruote, litigando per entrare con l’inutile spada che il suo grado gli imponeva di portare, per poi sparire diretto al fronte da cui non sarebbe più tornato.

Quei ricordi le portavano solo dolore, la riconducevano a un passato perduto. Eppure Lila provò ad aggrapparvisi, a sperare che la realtà si ribaltasse, che il sogno diventasse il presente e la realtà solo un lungo terribile incubo. Desiderò che tutto il tempo trascorso da quando era iniziata la guerra svanisse, per ritrovarsi a galleggiare placida e felice in attesa di un bicchiere di giche. Ma era una lotta inutile, una battaglia persa in partenza, non molto dissimile da quelle che i soldati della Repubblica avevano affrontato prima di crollare. Man mano che la consapevolezza faceva ritorno, il sogno sfumò e la realtà le si presentò con tutta la sua terribile incuranza.

Non stava nuotando, non era immersa nelle acque della baia, la sua coda e la sua schiena erano leggermente umide, ed era distesa su qualcosa di irregolare ma sufficientemente stabile da sostenerla. Un peso improvviso sul petto pizzicò la sua pelle sotto la camicia. Sentì un tocco delicato, a cui seguì un vicino e forte stridio che le fece spalancare le palpebre.

Un occhio la guardava, l’iride gialla su cui la pupilla era ridotta a una strettissima linea verticale, puntava dritta verso di lei. L’occhio si piegò di lato, penzolando dai sottili legamenti attaccati al becco rosa e appuntito di una petula, che a sua volta la fissava senza espressione.

Non sono ancora morta… – disse Lila con voce flebile. Fu più una domanda che un’affermazione. L’uccello rispose sollevando il becco e ingurgitando l’occhio, la sagoma affusolata della testa che si stagliava scura contro Satava, il Padre, il gigante gassoso che sembrava grande come una mano e che brillava come sempre nel cielo.

La petula piegò la testa guardandola con aria interrogativa, le piume azzurrine brillavano alla luce riflessa del Padre, la stessa luce che ammorbidiva la notte di colori soffusi, così presenti nelle sonate che un tempo aveva suonato.

L’uccello fece un saltello in avanti affondando gli artigli sul suo petto e strappandole un doloroso lamento che convinse l’animale a spiegare le sue quattro ali e volare via, perdendosi in quel cielo argentato e unendosi ad altre luccicanti ombre simili che ruotavano in aria.

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©2025 Giovanni Oro

©2025 Delos Digital Milano

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