Di seguito pubblichiamo l’intervista a Michele Rossi direttore del Gabinetto Vieusseux curatore del libro Condotti da fragili desideri. Parole e liturgie dei CCCP – Fedeli alla linea (Baldini + Castoldi 2024, € 19, pp. 304).
Carlo Tortarolo
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Nel libro ho trovato un passaggio stupendo: “È per questa ragione che le loro poesie per musica non affondano quasi mai definitivamente il colpo. I CCCP sapevano che, se ci avessero provato, probabilmente non avrebbero mancato il bersaglio, ma andando a segno avrebbero rovinato il centro.” Allora ti chiedo: qual è l’estetica dei CCCP?
I CCCP sono stati qualcosa di ostico e, al tempo stesso, calamitante: una teatralità grezza, selvaggia, barbarico-futurista, un «eccesso di anima e una miseria di capacità tecniche» come ha spiegato Giovanni Lindo Ferretti. Schegge di malessere messe in musica e condivise con il pubblico. Il palco, per i CCCP, era un modo per mettere in atto degli esorcismi privati e pubblici. A livello estetico recuperavano quello che non funzionava più a livello politico, essendosi resi conto che all’origine del loro malessere c’era l’interiorità. Mi spiego meglio. La loro generazione era profondamente marcata dalla dimensione politica: l’ideologia determinava, allora, la vita e i comportamenti di tanti. Ben presto però, Ferretti e Zamboni se ne distaccarono: il primo dalla militanza in Lotta continua, il secondo dall’adesione nella Fgci, perché si resero conto che l’impegno politico era una parte non determinante dell’esistenza umana, non potevano ridurre la complessità del vivere alla dimensione politica. La politica non era qualcosa di salvifico, tutt’altro, anche se certamente non se ne poteva fare a meno. Salirono su un palco per affrontare il loro disagi, perché ai concerti potevano praticare una psicoterapia di gruppo. Penso che occorra partire da qui per comprendere fino in fondo il progetto culturale dei CCCP.
Nel tuo libro, descrivi un periodo di grande tumulto ideologico e sociale. Quali sono le lezioni più importanti che hai appreso dalla tua ricerca sulle esperienze passate dei CCCP?
Negli anni Settanta, gli anni in cui si sono formati culturalmente Ferretti e Zamboni, e negli anni Ottanta, quando i due decisero di dar vita al gruppo musicale, c’era una condivisione che forse adesso è inimmaginabile. C’era un incredibile libertà di pensiero. Certo, si possono fare ancora oggi quelle stesse cose che si facevano allora, ma individualmente però, perché è come se si fosse dissolta la percezione collettiva. Ai CCCP, e a tutti i giovani, sembrava di entrare in maniera prorompente all’interno della storia contemporanea.
Oggi non esistono più i limiti che i giovani avevano in passato, i freni imposti dalla famiglia, gli ostacoli dettati dalla società e dalla cultura, e tutti possono allargare la propria coscienza e fare le proprie esperienze. Tutti quanti possono essere connessi con il mondo. E la tecnologia ci illude di essere tutti uniti. Ma è tutto virtuale, non reale. E questo è un gravissimo pericolo. Il «metaverso», parola coniata nel 1992 dallo scrittore americano Neal Stephenson, identifica un mondo virtuale in cui i protagonisti si ritrovano per sfuggire alla realtà catastrofica del mondo reale. Non so dove porterà il «metaverso», ma so che fa venire meno la capacità di sognare un mondo reale differente.
La profondità del libro, anche in relazione al lavoro da te svolto nell’analisi filologica evidenzia una complessa stratificazione letteraria e culturale nei riferimenti della band. Secondo te i CCCP fanno parte della grande letteratura?
Non ho dubbio al riguardo: i CCCP sono stati l’ultima avanguardia italiana del Novecento. Hanno espresso in modo inedito ciò che era visibile ed era a disposizione di tutti, ma era distratto dall’automatismo della percezione. Le canzoni dei CCCP non solo raccontano qualcosa di pre-esistente, ma danno da pensare a qualcosa di nuovo: questo è l’atteggiamento tipico delle avanguardie. I CCCP creavano un cortocircuito nelle idee correnti e nell’opinione pubblica. E se ancora sono così seguiti, è perché forse un po’ ci sono riusciti.
Come è cambiata la tua percezione del mondo e della musica dal momento in cui hai iniziato a scrivere su di loro fino ad oggi? Ci sono stati momenti chiave che hanno influenzato questa evoluzione?
È difficile per me individuare dei momenti chiave. Nel volume ripercorro, tramite alcune canzoni, la storia artistica di un gruppo post-punk, che è stato uno degli avvenimenti musicali più folli degli anni Ottanta del secolo scorso. I CCCP producevano una musica punk particolare, melodica emiliana e filosovietica, che era necessità di avere un muro dove sbattere la testa, come commentava Pier Vittorio Tondelli, vale a dire come necessità di un immaginario alternativo a quello allora imperante, quello americano, benché il loro fosse logoro e superato.
È questo che mi ha sempre attratto di loro. Per Ferretti e Zamboni il movimento punk era un un’illuminazione, come lo è sempre stata per me la loro avventura. Non è cambiato il mio modo di vederli dopo tanti anni. Casomai Giovanni mi ha aiutato a trovare motivo di meraviglia in tutto quello che esiste sulla terra. Sì, questo è l’insegnamento più prezioso che ho ricevuto da lui.
Hai descritto momenti intimi e personali con i membri dei CCCP. Quali sono state le esperienze più significative che hai condiviso con loro e come hanno influenzato il tuo lavoro?
Il libro in verità l’ho costruito con tanto studio e sterminate letture. Perché è un canzoniere commentato, un’accurata ricostruzione del periodo storico e della stratificazione culturale presente nelle loro canzoni, a mio modo di vedere ovviamente. Ho cercato poi di mettere ordine a una storia, quella dei componenti dei CCCP, dove l’ordine non c’è mai stato, una storia che è stata governata dal caos, ma anche dal destino. E ho cercato di farlo nel modo più narrativo possibile. Ai lettori l’ultima parola. Tante spiegazioni dei testi mi sono arrivate direttamente dagli autori, a volte senza rendersene conto. La prima volta che l’hanno letto, avranno forse pensato: “Ma come fa Michele a sapere questo? In che occasione gliel’ho raccontato?!” Sono stato un po’ ladro di spiegazioni, lo ammetto! Comunque l’esperienza più bella è stata la lettura fatta di centinaia di libri, che spaziano dalla narrativa alla poesia, fino alla saggistica e alla memorialistica, alcuni da loro stessi letti e conosciuti, che sono il sottotesto delle canzoni.
Qual è la tua visione sul futuro delle ideologie politiche nel contesto attuale, e come possiamo imparare dal passato?
Lo dico subito. Non vedo alcun pericolo che ritorni il fascismo, e non saranno certo i vecchi fascisti, alcuni oggi al governo, eventualmente a rifondarlo. Sta soffiando però un vento destroide che è la manifestazione di qualcosa di più profondo radicato nell’animo umano e nelle pulsioni sociali: è la tendenza imperante all’unanimismo, al pensiero unico omologante, l’intolleranza verso i “diversi”. Tutto questo ce lo ha spiegato benissimo Umberto Eco in un noto intervento, pubblicato all’interno del libello Il fascismo eterno edito dalla Nave di Teseo nel 2018. Sento attorno un parlar vuoto e violento, vedo leader politici sovranisti che accarezzano l’ignoranza e la banalità della gente. Avverto cattiveria e rancore diffusi, trasformati da alcuni nella leva cinica del riscatto sociale. La loro forza si basa sulla debolezza della massa. Solo questo posso dire. Ma il vero problema è un altro: è che la storia non sembra più essere magistra vitae. Tendiamo a immergerci in un presente permanente, dove manca ogni rapporto con il passato storico. È come se fosse venuto a noia il dettato: “studiare il passato significa capire il presente”. Viene innalzato come un trofeo il feroce deserto mentale. E molti sono d’accordo, applaudono. Mentre il racconto del passato è diventato un cazzeggio continuo. Che approssimazione storica… Anche per questo ho deciso di annotare le canzoni dei CCCP. Delle mie spiegazioni appariranno superflue ad alcuni, ma ad altri no.
Guardando al futuro, quali speranze e timori hai riguardo ai movimenti culturali e sociali?
Vorrei soffermarmi solo sulla letteratura, che è il terreno che calpesto. Che tristezza mi viene a leggere i romanzi e le poesie contemporanee… senza stile, senza personalità propria, peggio ancora senza nessun alcun valore letterario: romanzetti che durano lo spazio di un giorno. Sono scritti effimeri… Non siamo messi bene. Quello che manca è una ragione per leggere. Infatti nessuno legge più! Siamo un Paese che crede nei premi, nei festival letterari e non nei libri, che pensa che chi è in cima alle classifiche di vendite e sempre presente alle manifestazioni culturali o ha molti followers sia il più grande scrittore del momento. Invece in letteratura la quantità ha poco a che fare con la qualità. Per non parlare poi delle modalità instaurate tra politiche editoriali e ritualità recensorie. Le recensioni critiche sono scritte per i sodali, in nome dell’amicizia o dell’ammirazione incondizionata, se non della deferenza. In mancanza della vera critica, è il mercato a dettare gli orientamenti. Cosa possiamo fare? Forse ascoltare i CCCP…
Nel libro, tratti delle ingiustizie sociali e della lotta contro il consumismo. Qual è il messaggio che speri di trasmettere ai lettori riguardo alla responsabilità sociale degli artisti?
Walter Benjamin definiva «mandato sociale» la delega che il pubblico concede all’artista, perché questi produca opere sottratte al ciclo della necessità economica e dotate di valore simbolico. Questo mandato sociale non è più individuabile nella letteratura canonica. È come se fosse stato revocato quel mandato sociale. Pensiamo alla poesia. Lo conosco abbastanza bene questo mondo, anche perché a volte sono in giurie letterarie. Oggi la poesia è sempre più autoreferenziale, è fatta solo da coloro che ambiscono ad affermarsi come autori a loro volta. Il mondo poetico è come una riserva ristretta priva di lettori che sopravvive solo tramite il prestigio che ha accumulato per secoli grazie ai programmi scolastici e a qualche audace casa editrice. Negli ultimi decenni però la crisi della poesia si è accompagnata all’affermazione progressiva di una forma d’arte che, nell’ambito della comunicazione di massa, ha conquistato una dignità culturale alta: mi riferisco alla canzone ovviamente. Uno dei primi scrittori a raccontare questo cambiamento è stato Pier Vittorio Tondelli negli anni Ottanta. In Un weekend post-moderno sosteneva che, mentre la poesia colta si insegnava noiosamente a scuola e rimaneva territorio di esegesi all’università, il bisogno di poesia, «bisogno struggente e assoluto negli anni della prima giovinezza», era soddisfatto da intere generazioni mandando a memoria parole e strofe di canzoni. Il contesto rock, a suo dire, aveva prodotto i più grandi poeti degli ultimi decenni. È vero, ancora di più oggi: mentre la poesia ha perduto oramai ogni legittimazione collettiva, la musica pop gode di un mandato sociale plebiscitario e i nuovi cantanti hanno una bella responsabilità.
Come vedi il ruolo dell’arte e della musica nel plasmare le coscienze collettive e contribuire a un cambiamento positivo, specialmente in un contesto di cambiamento politico e sociale?
Ogni canzone, quindi anche quelle dei CCCP, vivono in un arco temporale di pochi minuti: può essere un’annotazione, la fotografia di uno stato d’animo, un’urgenza descrittiva che si muove dentro l’autore e non può far a meno di liberare. I fruitori di musica si immedesimano in queste visioni, sentimenti e sensazioni. È proprio per questo che le canzoni vengono ascoltate da tutti, giovani e meno giovani. Un proclama dei CCCP diceva: «Se vi sentite baciati sulla fronte da qualche dio, se vi siete accorti che esiste una condizione umana ed una possibilità di realismo inquieto nel viverla, se sapete leggere quello che i giornali non scrivono, se non vi intendete come noi di musica ma non per questo ascoltate i critici, ma anche se non avete mai pensato niente di tutto ciò perché la vostra intelligenza non arriva a 70 fatevi coraggio il mondo è vostro la situazione è eccellente CCCP è con voi». Forse qualcuno ha preso alla lettera queste parole e ha cambiato il colpo d’occhio che ha sulle cose. A me piace immaginare che sia così.
Il tema della memoria è centrale nel tuo libro. In che modo la memoria collettiva dei gruppi, come i CCCP, può influenzare l’identità individuale e culturale?
Ad essere precisi, più che la memoria al centro del mio libro c’è la storia e la letteratura. Oggi la memoria viene declinata in una serie lunga di definizioni, fino a inflazionarne il significato e a farle perdere la sua originaria definizione e sovrapporla alla storia. La memoria in realtà è il campo dell’esperienza del vissuto, dunque è una categoria piena di soggettività. Non penso che i gruppi musicali, come i CCCP, possano più di tanto influenzare l’identità collettiva. Anche perché ai CCCP non interessava altro che porre l’attenzione su loro stessi. Volevano costruirsi una identità combattiva, non combattente. Su questo bisogna essere chiari.
In che modo pensi che l’eredità dei CCCP continui a vivere nel panorama musicale e culturale contemporaneo? Ci sono elementi della loro opera che ritieni particolarmente rilevanti per le nuove generazioni?
I CCCP recuperavano solo l’essenza del punk, vale a dire il motto: fai qualcosa, non importa se giusta o sbagliata, se la sai fare bene o no, ma provaci! I CCCP ci hanno fatto capire che non è importante saper suonare o cantare, ma volerlo fare. Ferretti e Zamboni decisero di mettere in gioco le loro vite con l’avventura dei CCCP «senza medicazioni durante e senza paracadute nel dopo», come ha dichiarato Zamboni. Mentre i loro amici stavano trovando una loro strada nel mondo del lavoro, con sicurezze anche economiche, loro percorsero la più impervia, senza alcuna garanzia. Nella canzone Manifesto cantano: «Osare l’impossibile, osare/osare perdere». Loro hanno osato, eccome se hanno osato… È un importante insegnamento il loro per le nuove generazioni: osate sempre, non accontentatevi mai!
Come direttore del gabinetto Vieusseux, quali iniziative stai portando avanti per promuovere la cultura contemporanea? Qual è il tuo approccio per coinvolgere le nuove generazioni in questo ambito?
In molti modi, utilizzando anche linguaggi diversi da quelli utilizzati in passato. Per chi non lo sapesse, il Gabinetto Scientifico Letterario è stato fondato a Firenze circa duecento anni fa da un mercante ginevrino, come Gabinetto di lettura, una straordinaria biblioteca con libri che andavano in prestito e come uno spazio culturale aperto al dibattito e al confronto, per rispondere alle esigenze dei numerosi stranieri di passaggio in città per il loro ‘Grand Tour’. Tanti nomi illustri hanno lasciato la loro firma nei registri: Leopardi, Manzoni, ma anche Arthur Schopenhauer, Fëdor Dostoevskij, Mark Twain, Emile Zola, Henry James, André Gide e tantissimi altri. L’Istituto porta avanti tante iniziative culturali. Quest’anno ad esempio, abbiamo organizzato tre serate di musica e parole nel cortile rinascimentale di Palazzo Strozzi, dove si trova la nostra sede, per avvicinare il grande pubblico, soprattutto quello giovanile, ai più grandi autori italiani del Novecento i cui fondi sono custoditi presso l’Archivio Bonsanti del Vieusseux. L’Archivio Contemporaneo raccoglie da cinquant’anni, grazie all’intraprendenza avuto in passato dal direttore Alessandro Bonsanti, il materiale documentario e bibliografico di personalità del mondo contemporaneo, e si distingue, nel panorama degli istituti di conservazione simili, per la poliedricità delle discipline e della documentazione a cui dà ospitalità. Un patrimonio ricco e importante, che spazia dalla narrativa (ci sono i fondi Gadda, Pratolini, La Capria, Tozzi, per citarne alcuni nomi) alla poesia, dal teatro alla critica letteraria, dalle arti figurative alla musica. Abbiamo invitato alcuni artisti a visitare l’Archivio per vedere i manoscritti, i dattiloscritti e i carteggi dei loro poeti preferiti e ‘ristudiarli’ da noi, per poi dedicare un reading agli autori prescelti. Tre serate bellissime con molta gente presente. Ci sono stati Francesco Bianconi dei Baustelle che ha raccontato il suo Giorgio Caproni; Gianni Maroccolo e Andrea Chimenti si sono occupati di Giuseppe Ungaretti, Massimo Zamboni di Pier Paolo Pasolini, che poi è il progetto che sta portando adesso per i teatri. È stupendo che questo suo reading sia stato prodotto dal Gabinetto Vieusseux. E poi… ma ho parlato anche troppo, non credi?
In che modo il tuo lavoro al gabinetto Vieusseux ha influenzato la tua scrittura e la tua visione come autore? Ci sono stati progetti o collaborazioni specifiche che hanno ispirato il contenuto del tuo libro?
Più che il Gabinetto Vieusseux, mi ha influenzato la mia formazione universitaria e la mia passione narrativa: sono dottore di ricerca in letteratura italiana. Impiego rigore filologico e metto il massimo scrupolo scientifico nell’analizzare un testo. Ogni mio commento delle canzoni dei CCCP è stato condotto sui testi e non partendo da teorie fantasiose. Oggetto dell’esegesi sono le loro registrazioni in studio, ovvero le tracce che si trovano nel disco originale, e considero le varianti che si trovano nelle interpretazioni ai concerti e nei testi secondari (pubblicazioni di spartiti, fogli allegati o nelle copertine dei dischi etc.) come varianti d’autore. Bisogna poi conoscere buona parte della letteratura del Novecento per cogliere citazioni, allusioni e reminiscenze presenti nei testi di Ferretti.
Potresti condividere qualche dettaglio sul tuo processo creativo? Come hai approcciato la scrittura di questo libro e quali sfide hai affrontato?
Non si scrive, se non si legge. Mentre oggi chi scrive legge sé stesso, solo sé stesso e tende a riportare su carta i suoi impulsi sentimental-emotivi. Sono un grande lettore. Ma ascolto anche della buona musica, come quella dei CCCP! Un libro deve cambiare prima di tutto la vita di chi lo scrive. A me questo libro l’ha cambiata, posso confessarlo. Non posso dirvi però come…
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Elisa Magnoni Photo