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David Machado. Sotto la pelle

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David Machado sceglie il tema del trauma che nasce dallo sperimentare un episodio violento, intraprendendo un viaggio immersivo dentro ciò che la memoria conserva “sotto la pelle” dei personaggi, e cercando inoltre di comprendere gli ingranaggi sottostanti che compongono questo intricato meccanismo. 

In questo suo quarto romanzo, Sotto la pelle, edito da Voland, David Machado azzarda una struttura narrativa diversa; più complessa, ma meno convenzionale, rispetto ai canoni stilistici consolidati dei suoi romanzi precedenti. 

Dividendo il romanzo in tre parti distinte – con episodi che si svolgono distanti tra loro nel corso del tempo – e creando una voce narrante per ciascuna di esse, i racconti possono essere letti singolarmente, come mondi a sé stanti, così come possono essere letti come un unico romanzo, in quanto Machado sceglie di sfiorare e intersecare i personaggi che ne sono protagonisti. 

Il primo, Júlia não está cá , Júlia non è qui (1994), è un racconto dettagliato, quasi intessuto secondo per secondo, su ciò che passa per la testa di una ragazza di 19 anni.

“Júlia si sveglia. Le 3:43, secondo l’orologio sul comodino. Nonostante la luce verde irradiata dai grossi numeri nel quadrante,

l’oscurità occupa ogni spazio, come se la stanza non fosse lì. Il mattino sembra molto lontano, quasi impossibile. Nell’appartamento accanto i vicini stanno discutendo – vanno avanti così da quando si sono trasferiti la settimana scorsa. Lo sforzo per non parlare troppo forte è evidente, eppure le loro voci attraversano la parete con violenza e le parole che giungono all’orecchio di Júlia si portano dietro una rabbia intensa. Júlia riesce a immaginare qualcosa oltre il buio, nella stanza: mare, fuoco nero, mani.

In quell’istante viene colta da un timore all’altezza del petto, come un colpo sparato chissà da dove all’interno del corpo. Cerca di combatterlo. A diciannove anni non dovrebbe essere poi tanto difficile. Va tutto bene, il peggio è passato –un tempo sufficiente perché una persona superi tutto – si sente forte, ricostruita; ecco, la parola giusta è questa, “ricostruita”: non c’è motivo per tutto ciò. Eppure, questi piccoli tradimenti del corpo si ripetono con troppa frequenza. Per esempio, Júlia piange: a qualsiasi ora, ovunque, un torrente di lacrime le sgorga dagli occhi e le bagna il volto, e non può farci nulla, solo aspettare che passi.”

Júlia, è una giovane segnata da una violenza, non ben specificata, subita un anno prima. Vive a casa dei suoi genitori e il vuoto si è impossessato di lei. Nel tentativo di fuggire da sé stessa e “ricostruirsi”, Júlia rapisce una bambina di 4 o 5 anni, che abita nel suo condominio -dove vive in un ambiente familiare violento ed abusante -, e la porta con sé, convinta di poterle donare una vita migliore. In queste pagine, sono descritti con tono empatico e sommesso, i deliri psicotici della ragazza. La protagonista, a causa dell’evento subito, è talvolta violenta, disprezza le donne, diffida di tutto e di tutti, cerca conforto nelle dipendenze e nell’ autolesionismo. La sua mente, seppure in maniera disfunzionale, reagisce al trauma, ma il corpo conserva traccia della ferita, ne conserva il ricordo. Anche con Catarina, dopo un primo momento di euforia, i suoi agiti diventano impulsivi, confusi, autodistruttivi.

In questo stato dissociativo, il tentativo di salvare Catarina può essere visto come un tentativo estremo messo in atto da Júlia finalizzato a salvare sé stessa.  

 La seconda parte del romanzo, intitolata Notas para um romance sobre uma rapariga que não suporta ser amada, Appunti per un romanzo su una ragazza che non sopporta di essere amata, 2010, l’innovazione stilistica è più evidente, a partire dalla sfocatura grafica del testo. Si tratta, infatti, di una sfocatura voluta, mirata, intenzionale, che aggiunge “gradi” di personalità alla struttura del racconto. Donando un effetto sfuocato allo sfondo, per contrasto, l’autore dona maggior risalto alla persona, emergente e risaltata in primo piano. 

Con questa tecnica di impronta “fotografica”, l’attenzione dell’osservatore tenderà a soffermermarsi esclusivamente sul soggetto principale. Sedici anni dopo l’evento che segnò la vita di Júlia, la piccola Catarina (ormai giovane donna) torna nella storia. Un uomo in carcere decide di scrivere la sua storia d’amore con una donna che non vuole essere amata. Il narratore si trasforma in un uomo anziano, che apparentemente ospita nella sua casa una giovane donna, di cui finisce per innamorarsi, soprattutto dopo aver letto il manoscritto da lei prodotto. 

L’ anziano uomo, che si definisce un giornalista gastronomico chiamato Salomão, prova a scrivere un romanzo sulla ragazza cambiando i fatti, “riscrivendo” una nuova realtà, come se fosse in grado, attraverso la narrativa, di salvare Catarina da un passato che l’assedia inesorabilmente e la tiene in catene, in ostaggio.

“Lui le regole non gliele dice, non è così coraggioso; me le annota su un foglio che fissa sulla porta della dépendance. È possibile che, nella realtà, le regole avrebbero impedito che succedesse ciò che è accaduto; o forse no. Iniziano a sorgere dei dubbi su cosa deve e non deve essere raccontato. Soprattutto in merito al narratore. Cos’ha di me? Non certo il nome. Si chiama: Romão, o Salomão, o Simão. Ha cinquantacinque anni – come me. Gli piace mangiare bene e cucinare, tiene una rubrica gastronomica settimanale e scrive anche recensioni di ristoranti per tre diverse pubblicazioni – come me. Crede che la letteratura, attraverso il linguaggio e la riflessione che fornisce, sia l’unica strada per raggiungere l’essenza dell’animo umano – come me. È silenzioso e circospetto e gli piace pescare – come me. Ha una figlia di venticinque anni che si chiama Laura – come me. E, come me, scrive la storia della ragazza che abita nella dépendance in fondo al giardino per capire, ma anche, e me ne accorgo solo adesso, per redimersi da ciò che ha fatto. A partire da ciò, non sono sicuro se le nostre vite dovranno coincidere. La questione rilevante è: si trovava in Angola durante gli attacchi alle fazendas, come me? Perché questa è l’origine di tutto; è una parte della mia storia che può aiutarea spiegare molte cose. Ma non ho nessuna voglia di inserire questo argomento nel romanzo. Per me sarà più facile immaginare un altro passato per il narratore, qualcosa che giustifichi il suo isolamento e la sua vita così solitaria. Ci penserò solo se sarà necessario.” 

Letterariamente è una “costruzione in abisso”, come forma di riflessione. La principale caratteristica cara a Gide, e presa in prestito da Machado, consiste nel far risaltare l’intelligibilità e la struttura formale dell’opera; una realtà strutturale che non è appannaggio né della narrazione letteraria, né della sola letteratura. Si dice dunque che una figura è in abisso, quando nella narrazione è posta tra due specchi in modo che si abbia l’immagine di una galleria infinita in cui ogni figura è contenuta all’ interno dell’altra. 

Cassettes do Manuel, Le cassette di Manuel, 2017, la terza parte, appare nel romanzo come una porta di speranza. La voce narrante è quella di un ragazzino di undici anni, Manuel, figlio del personaggio Júlia, che occupa l’inizio del libro e che ritorna nella storia molti anni dopo (vento o più). Un ragazzino che registra una cassetta per sé, che vive con la madre, praticamente isolato dal mondo e dal contatto con le persone. Il figlio cerca anche di affrontare il trauma di eredità materna (come se ne fosse stato investito tramite un processo di trasmissione intergenerazionale a base genetico-ereditaria), e finisce per cercare di comprendere alcuni degli insegnamenti della madre, riguardanti in particolare le modalità che lei ritiene che lui debba assumere per relazionarsi con gli altri. 

“Scusa. Mia madre pensa sia pericoloso.” Mi ha guardato con la coda dell’occhio e ha detto:“Lo sai che tua madre è matta?” Io lo sapevo che mia madre non era matta, ma non me la sono presa con Rachel, perché a volte mia madre sembrava matta e io stesso l’avevo già detto in passato. Ho fatto spallucce e Rachel ha aggiunto “Pensavo fossimo innamorati, Manuel.” A dire la verità, mia madre non ha mai detto che non potevo parlare con Rachel, o essere amico suo o di chiunque altro.Quello che ha detto è che quando siamo amici di qualcuno, finiamo per avere troppa fiducia in quella persona e abbassiamo la guardia, e che questo è come andare in battaglia con un bersaglio in fronte – un’idea che mi sembrava molto giusta e decisamente logica, come una formula matematica. Lei aveva paura a causa di quello che le avevano fatto quando era giovane e spesso, di notte, la sentivo lottare contro vecchi incubi, e così ho pensato che, se io e Rachel non fossimo stati amici, forse lei non avrebbe avuto tanta paura. Ma dirlo a Rachel è stata una delle cose più difficili che ho fatto in vita mia. Perché Rachel era proprio una mia amica. Cioè, era la mia unica amica.”

Le tre parti sono intrecciate magistralmente. Il fil rouge che le unisce consiste in una profonda disperazione che corrode internamente individui arroccati,chiusi in sé stessi, ma aggrappati ad una esile, fiebile speranza di poter fare ritorno nel mondo.

La vita può essere un luogo insopportabile, e i personaggi di Machado, in un modo o nell’altro, compiono scelte sempre volte alla ricerca di qualche tipo di sollievo, o sotto forma di dimenticanza o di atteggiamenti violenti e reazioni fisiche. Sembrano dare per scontato che ciò che è stato il loro vissuto, viene continuamente rivissuto vorticosamente e non smetterà mai di reiterarsi, incamminandosi così attraverso paesaggi affettivi autodistruttivi.

Sono personaggi imprigionati in una sorta di coazione a ripetere da cui non riescono a divincolarsi.

L’ autore mantiene un’articolazione attenta e ferma, evitando soluzioni semplici o coincidenze. Machado non ricorre ad episodi da riempire o da collegare: al contrario, tutti i momenti descritti e narrati seguono una linea temporale impeccabile e significante.

Di grande interesse anche il suo approfondimento dell’aspetto psicologico dei protagonisti, colti in momenti complessi della vita ed emotivamente sotto pressione. Immersi in questa costante ricerca di “ricostruzione”, e infangati nella messa in atto di tentativi volti a redimersi e cercare di dimenticare, non riescono al contempo però a non interrogarsi sulla loro natura, come chi si trova ingabbiato in una condizione quasi paradossale, poiché deve risolvere un problema di calcolo che però in fondo risulta impossibile.

Intrigante, anche se, durante le prime pagine, di difficile comprensione, l’ambiguità stilistica giocata sulla narrazione degli eventi. Il lettore volutamente non può afferrare, se non a romanzo inoltrato, fino a che punto esista un dialogo tra i personaggi, e il qual è il ruolo del narratore che racconta la storia. Dunque, la “mise en abyme” è presente in ogni inserto che intrattiene una relazione di somiglianza con l’opera che le unisce.

Francesca Mezzadri

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