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Gemelli diversi

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I tedeschi nel 1918 avevano perso la guerra, nel 1945 persero pure la faccia. Ciò basta a spiegare l’exploit di romanzi subito dopo la prima guerra mondiale, e il silenzio tombale dopo la seconda. Bisognerà attendere il 1949, quando in contemporanea uscirono Leviatano di Arno Schmidt e Il treno era in orario di Heinrich Böll. Gli autori di queste due opere prime sembravano fatti per marciare in coppia. Figli di povera gente (metronotte il padre di Arno, falegname quello di Heinrich), impiegati di poco concetto dopo le secondarie (in una fabbrica di tute da lavoro il primo, in una libreria il secondo), soldati entrambi al fronte per cinque anni e per un anno entrambi prigionieri in Belgio, giovani sposi entrambi a donne con cui passeranno la vita intera (fors’anche perché di valido supporto ai partner, Alice come dattilografa, Annemarie come traduttrice), premiati entrambi con due premi prestigiosi nel 1951 (da Döblin Arno, dal Gruppo 47 Heinrich) e nel 1972 (Premio Goethe Arno, Nobel Heinrich)…

Però adesso basta. Arno era figlio unico e senza prole, Heinrich ultimo di otto fratelli e padre di quattro marmocchi; Arno era ateo, Heinrich cattolico. Idee e vissuti stanno insieme eccome, basti pensare a quell’altro tedesco che fino a giorni fa pontificava da Roma sul valore della famiglia…

Così sei anni di divisa servirono ad Arno per liberarsi delle croste romantiche di ogni Deutschtum, mentre a Heinrich rinforzarono la fede cristiana. Ciò ebbe effetti subitanei e inevitabili sullo stile: da parabola evangelica in Böll, da stenografia sperimentale in Schmidt.

Non è un caso che il Treno sia tre volte lungo il Leviatano. Entrambi i romanzi parlano del viaggio su rotaia di un soldato: quello bölliano torna al fronte orientale alla fine del ’44, quello schmidtiano torna a ovest braccato dall’armata rossa all’inizio del ’45. Entrambi moriranno, ma il primo lo sa miracolosamente (o artificiosamente) dall’inizio, l’altro non lo sa fin quando decide di… Böll così carica di significati simbolico-iniziatici il viaggio, Schmidt lo scarnifica a deriva, del protagonista come del significante.

Entrambi incontrano una donna, solo che quella di Böll è una maddalena, con tanto di pentimento e redenzione, quella di Schmidt… lasciamo perdere.

Discorsi discorsi discorsi. Invece d’imbonire, come fa spesso la critica, è meglio riportare una pagina per ciascun romanzo – non la 69, perché Leviatano non ci arriva, ma la prima. La traduzione del Treno è di Italo A. Chiusano (Mondadori, 1974), mentre il Leviatano è a cura mia (Mimesis, 2013, con commentario a fondo testo in prima mondiale).

Aggiungo infine che il Treno fu tradotto per la prima volta in italiano nel 1958 per i tipi del cattolico Istituto Propaganda Libraria da Bice Tibiletti, mentre Leviatano fu scartato da Cesare Cases quando spadroneggiava all’Einaudi. Inutile specificare che Böll nel corso di decenni è stato tradotto quasi tutto in italiano per varie e grosse case editrici (Mondadori, Bompiani, Einaudi ecc.). Sulle peripezie italiane di Schmidt (così simili alla deriva raccontata nel Leviatano, come quelle di Böll ripetono l’assunzione in cielo del Treno), si può guardare qui http://tysm.org/?p=8565 .

Buona lettura (e se volete, alzate la paletta).

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Heinrich Böll

Mentre attraversavano il buio sottopassaggio, udirono sopra di loro il fragore del treno che arrivava, e la voce sonora dell’altoparlante disse con dolcezza: “Tradotta militari in licenza, proveniente da Parigi per Przemysl, ferma a…”.

Poi, salite le scale fino al marciapiede, si fermarono davanti a uno scompartimento qualunque, da cui smontavano soldati in licenza con le facce allegre, stracarichi di pacchi giganteschi. Il marciapiede si svuotò in fretta, era la solita scena. Qua e là, davanti ai finestrini, stavano ragazze o donne o un padre tetro e taciturno…La voce sonora, intanto, diceva di affrettarsi. Il treno era in orario.

“Perché non sali?” chiese al soldato, ansioso, il cappellano.

“Come?” domandò il soldato, stupito. “Potrei buttarmi sotto le ruote, no?… potrei disertare, no? Tu che vuoi… Posso, sì, posso impazzire… ne ho tutto il diritto: ho tutto il diritto di impazzire. Io non voglio morire, il terribile è che non voglio morire.” Parlava con assoluta freddezza, quasi che le parole gli uscissero di bocca come ghiaccio. “Sta’ tranquillo! Adesso salgo, da qualche parte trovi sempre del posto… sì… sì, non prendertela, prega per me!” Prese su il bagaglio, salì attraverso il primo sportello aperto che si trovò davanti, abbassò il vetro di dentro e si sporse ancora una volta, mentre sopra di lui la voce sonora aleggiava come una nube vischiosa: “Il treno è in partenza…”.

“Non voglio morire” gridò, “non voglio morire, ma il terribile è che morirò… e presto!” Sempre più la figura nera si allontanava su quel marciapiede freddo e grigio… sempre più, finché la stazione fu inghiottita dalla notte.

Talvolta c’è una parola che, pronunciata con apparente indifferenza, acquista a un tratto come un senso cabalistico. Si fa pesante e stranamente veloce, precorre chi l’ha pronunciata, decisa a squarciare un vano, chissà dove, nelle regioni incerte del futuro, poi torna al punto di partenza con la terrificante sicurezza di un boomerang. Dalle chiacchiere superficiali e sconsiderate, per lo più dalle parole terribilmente grevi e opache che ci si scambia accanto ai treni che conducono alla morte, si direbbe che un’onda plumbea si ripercuota su chi parla, facendogli improvvisamente sentire la spaventosa e insieme inebriante potenza del destino. Gli innamorati e i soldati, i votati alla morte e coloro in cui sovrabbonda l’energia cosmica della vita ricevono a volte, all’improvviso, questa virtù, vengono graziati e oppressi da un’illuminazione repentina… e la parola sprofonda, sprofonda dentro di loro.

Mentre Andreas si faceva lentamente strada verso l’interno del vagone, la parola piombò ben presto in lui come un proiettile, penetrando senza dolore e quasi inavvertitamente attraverso la carne, i tessuti, le cellule, i nervi, finché in ultimo urtò in qualche cosa, scoppiò, produsse un orrendo squarcio e fece sgorgare sangue… vita… dolore.

Arno Schmidt

 

14.2.’45

La testa vibra come un bordo tumescente di campana – ohi –. Devo gonfiare e torcere la bocca. – Ohi ! –.

Più tardi

Sull’elmetto c’è appena un bozzo liscio; sicuramente un colpo deviato dalle rotaie. Ma posso di nuovo pensare e muovermi. – La città intera (e pure qui zona della stazione) è ancora sotto tiro; sadico : uno qua, cinque là, ancora qua. La neve è tutta sporca di polvere da macerie. In prevalenza cannoneggia a est e a nord (verso Kreuzberg e Kerzdorf); lì lo scontro di fanteria procede senza tregua. Mi resta solo la mia pistola norvegese 11,25 mm; carica, e in tasca qualche pallottola sciolta. – Proprio impossibile stimare l’ora in giorni simili; è sempre grigiochiaro uguale, le recinzioni sempre nere. (Sono le 14 e 16.) Devo riuscire a muovermi di qui : il mio ordine di marcia è Ratzenburg. Pazzesco vedere la Bahnhofstrasse così, quando se ne conosce ogni angolo; quotidianamente l’ho percorsa; nell’inverno polare del ’28/’29, nella celeste e fredda primavera, nel verde estivo degli afosi ippocastani, spesso lo stabilimento balneare al Queis col suo fruscio autunnale è nei miei sogni. Però converrebbe vedere di recuperare una locomotiva, i binari sono ancora quasi intatti (così si gioca coi pensieri; non so proprio farle andare. Invece di agire).

15,00

Giusto davanti a me ancora tre carri-merci; uno di ghiaia, poi un vagone chiuso, in coda un veicolo speciale (un affare in acciaio grosso quanto un uomo; l’ho visto solo passando di corsa). Nel vagone c’erano già abbastanza disperati; l’altroieri sera alle 22, dicevano, la città era stata evacuata. Avevano sempre creduto… Due soldati (uno con una benda insanguinata attorno al capo); una ragazzotta mostra impudente gli occhi; un pastore con famiglia.

15,10

(Dietro il carro speciale) : l’ho riconosciuta all’istante ! (Prima avevo visto solo quella magra di una certa età, sua madre.) Portava una larga pelliccia marrone, striata di nero. Finché si girò. Rialzò subito sorpresa e freddamente divertita il sopracciglio sinistro e protese il mento; poi issò nel vagone una grossa valigia. (Quattro colpi raggiunsero contemporaneamente l’officina riparazioni; uno così vicino che vacillammo per lo spostamento d’aria prima di poterci buttare giù. Funghi di fumo schizzarono dai detriti, alti quanto case; pietra e metallo solcarono a schegge l’aria. I suoi capelli scuri sulla neve.) Di là, dalle rimesse sfondate saltarono a testa bassa due uomini, caddero insieme, si guardarono accucciati intorno, superarono strisciando le rotaie. A giudicare dalle tute blu sporche, meccanici.

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