Alcune vite sono fatte di sottrazione. Vogliono lo strappo con i giorni, con la sepoltura del respiro. Hanno paura della vita stessa che cercano di rompere, di frantumare, senza riuscirci. Miracolate. Nella deriva dei pensieri, peggio delle azioni, precipitano per acchiappare quello che rifiutano oppure per imprimere meglio ciò che vorrebbero per ricordarsi di un monito. Marchiatura a caldo. Senti che qualcosa ti chiama verso un dolore che già vivi in silenzio. Condividerlo significherebbe abbassare la testa prima ancora della resa.
Impari da solo a circoscrivere la sofferenza. Sai già da dove viene, ma ne ignori la direzione. Lo urli nel silenzio della sconfitta e cedi all’incantesimo della fine. Speri che tutto possa finire con un niente, in un istante. Scorri lungo il sussidiario dell’esperienza. Non serve a nulla. Niente è già scritto, pur vissuto, sulla lapide delle fratture. Restano per sempre. Anche quando ti ricomponi con la determinazione, con i ferri, con i punti di sutura tra te e la vita. Pensi di non averne mai avuta una, di aver fallito in tutto avendo perso la trama della bellezza. E l’amore? Un coprirsi di menzogne per poi ripiombare nel vuoto. Sei il carnefice di te stesso. La rima spezzata di un equilibrio mancato, la vergogna che leggi negli occhi degli altri, la rinuncia alla vita sguaita. Soprattutto sei il salto nel vuoto. Il precipizio nel falò dell’inverno e il sonno occupato dal dolore. Avvertire la vita senza alcun credo è un’offesa ai sorrisi. Così, ti capaciti delle macerie che vedi e che fai attorno.
L’abisso tra il prima e il dopo è profondo un’esistenza intera. Rattopparla, certo, si può. Figurarsi di essere un’altra persona, diversa, nuova, anche. Eppure, finisci nella periferia dell’intorpidimento di ore che camminano sole, stanche, magre. Il soffio delle piccole cose diventa il sibilo della memoria. E’ il segno che, nonostante tutto, scorre ancora la dignità in una carne rappezzata da silenzi, dolore ed estasi dell’assenza.
In Purgatorio di Ilaria Palomba per Alter Ego Edizioni entri nel tumulto della scrittrice, che ha ingoiato degli psicofarmaci e si è lanciata nel vuoto, a Roma. Vive sei mesi in ospedale, nel reparto di unità spinale. E’ una miracolata. Non sarebbe dovuta sopravvivere, invece torna addirittura a camminare. Il dolore mentale è collegato a quello fisico, spesso si sovrappongono. A volte esplodono, altre diventano apatia. Silenzio, assenza. Tornano gli incubi, l’angoscia, un amore smisurato per la letteratura e per la filosofia, ma anche ciò che è stato il ritorno alla vita dopo il “grande salto”.
Il libro è memoir forte, duro, viscerale. La narrazione, a tratti poetica e in altri ribelle, mette a fuoco una serie di interrogativi che vedono la vita e la morte in un dialogo fatto di avvicinamenti e di distanze. Il lettore soffre e respira come la scrittrice. Si paralizza egli stesso perché sente il mulinare di tanti stati d’animo che afferrano il dolore e le lesioni di una vita spezzata e ricomposta.
Lucia Accoto