Rasoterra, pubblicato per Il Cardo Società Cooperativa Sociale Onlus nel 2024, è un dialogo tra i testi di Giacomo Sartori e le immagini di Elena Tognoli che racconta il mondo dal punto di vista delle cose e dei non parlesseri. Lo scrittore, infatti, si fa medium degli esseri vegetali e animali, degli oggetti sepolti sotto terra, del partito che i non umani non possono prendere. Il racconto è stato illustrato da Elena Tognoli: immagine e testo paiono, molto liberamente, affiancarsi, allontanarsi e mai si fanno ecfrasi o didascalia, un canone di due voci che descritturano la natura con l’intento di risvegliare o agire una rivoluzione antiantropocentrica, «un linguaggio verbale e grafico non antropocentrico per parlare della terra (quella con la t minuscola), che è oscura, misteriosa, e è considerata sporca e brutta.» La lettura e la visione del testo divertono e fanno riflettere la responsabile gravità tragica – tutto il peso del nostro abuso alla terra è scientificamente servito in carta rosa nelle interviste (degli animali, dei vegetali e delle cose a persone esperte in agronomia, economia, arte, ecc.) – cui non possiamo sottrarci eppure il racconto illustrato in carta bianca ci regala la leggerezza straniante di «un piacere legato alla manipolazione della lingua, alle trovate linguistiche che spesso saltano fuori inaspettate.» Rasoterra è un desiderio che si realizza condiviso e accoglie il paesaggio variante delle percezioni, delle durezze, delle asperità ma anche delle tenerezze della terra che siamo.
La diversità non è addomesticata e l’attenzione è fluttuante di chi vi transita «un sasso lanciato in uno stagno, […] davanti a delle persone che assistono.» Nella scrittura e nell’illustrazione torna, pur nell’agilità favolistica, il tema disturbante della putrefazione, della morte, lo stesso protagonista del racconto, un merlo, è un anticonformista che non si adegua alla norma. La sporcizia, l’irregolarità delle forme, il soggettivo non perfettamente educato a quella soffocante omologazione che è anche e soprattutto culturale nel nostro Paese oggi: «anche le trasgressioni, più spesso tematiche […] puntano proprio sullo scardinamento della “normalità”, ma in un modo in fondo controllato, puntando su un effetto preordinato, mi fanno pensare ai fuochi d’artificio.» In questo senso, la semplicità apparente del racconto e delle illustrazioni – monocolore con accenni, a volte di colori accesi violaverdi – che disegnano forme di presenze organoinorganiche precise e effimere allo stesso tempo e nel medesimo spazio dell’uomo – che si suppone eterno – chirurgie monocromatiche di animali, visioni aeree e linee prospettiche inusuali che generano profondità bidimensionali, pulsioni geometriche che animano volti e esseri parlanti nella mappa di un organismo più vasto che accoglie lombrichi, trattori, montagne, città, occhi, uccelli e terra, buchi, i vuoti del desiderio, i noncompatti che danno respiro e ossigeno, le forme del disegno e della scrittura sono terre note e inesplorate, familiari e strane, la noncompatta è terra come la scrittura, sembra piena come la pagina immensamente colorata: «essa contiene però anche tutte le potenzialità, e è questo che mi affascina, per scardinare i luoghi comuni,» e in questa desideranza di scrittura illustrata e di immagini raccontate mettersi dal punto di vista della terra sporca e piena di vita ci incoraggia a tornare quello che eravamo sempre: animali desideranti…
Gianluca Garrapa
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Qual è stata la genesi del tuo libro e perché hai desiderato scriverlo?
Questo racconto illustrato è in realtà il frutto di un lungo lavoro iniziato con l’artista Elena Tognoli quattro anni fa, che consisteva a trovare un linguaggio verbale e grafico non antropocentrico per parlare della terra (quella con la t minuscola), che è oscura, misteriosa, e è considerata sporca e brutta. Cammin facendo ci siamo resi conto che in realtà con la sua complessità e le sue ambivalenze (l’organico e l’inorganico, il mondo vegetale e quello animale, l’aria e l’acqua, la vita e la morte…), il suo mistero, essa era uno spezzone paradigmatico di quella che chiamiamo “la natura”, dimenticandoci che noi ne facciamo parte integrante. Quindi parlare della terra era parlare anche degli umani, del loro posto tra gli esseri animati e non animati, degli effetti della loro presenza. La nostra sfida era farlo in modo giocoso e senza pesantezze, e anzi divertente, ma pur sempre molto rigoroso.
Un estratto dal libro che è risultato più difficile o particolarmente importante: perché? Lo puoi trascrivere qui?
Quello che dice il narratore, il merlo che fa la spola tra l’Europa del nord e il sud delle Alpi: “Secondo i miei fratelli, le mie sorelle e i miei cugini non si può capire quello che dicono gli altri animali e gli altri esseri viventi, perché ognuno ha la sua lingua, ammesso e non concesso che parlino davvero, e non facciano piuttosto versi a caso.” Per noi è fondamentale, proprio per scardinare le visioni solo umane, questa presa di coscienza della molteplicità dei punti di vista e delle lingue.
Quando scrivi, godi?
Io ho sempre vissuto la scrittura come uno sforzo, non è qualcosa che mi esce facilmente. Sicuramente trovo però un piacere legato alla manipolazione della lingua, alle trovate linguistiche che spesso saltano fuori inaspettate. E poi sovente quando finisco di scrivere, e in genere sono molto stanco, avverto una pienezza e un appagamento che non trovo con nessun’altra attività.
Se non fosse scrittura, cosa potrebbe essere il tuo libro?
Un sasso lanciato in uno stagno, che provoca delle ondine concentriche, davanti a delle persone che assistono, in parte distratte e in piccola parte molto attente.
Che rapporto hai con la censura?
Mi sembra che nelle nostre società dei media e dei social la censura apparentemente è scomparsa, ognuno può dire quello gli salta per la testa, ma a ben guardare si è trasformata in autocensura. Siamo tutti molto coscienti di quello che facciamo, o insomma di come ci presentiamo agli altri, quindi il rischio è diventare nello stesso tempo gli aguzzini e le vittime consenzienti di noi stessi. Lo vedo molto bene nei prodotti letterari, che tendono a una uniformazione, a una eliminazione delle asperità dei temi e formali. E questo non deriva certo dal fatto che qualcuno detta delle regole o impedisce qualcosa: sono gli scrittori stessi che si autoregolano. E paradossalmente anche le trasgressioni, più spesso tematiche (i romanzi che parlano delle esperienze personali di incesto, di esperienze limite…), puntano proprio sullo scardinamento della “normalità”, ma in un modo in fondo controllato, puntando su un effetto preordinato, mi fanno pensare ai fuochi d’artificio. Per me è sempre stato fondamentale, nella scrittura, mettermi in una posizione di squilibrio, di distanza dal seminato, sfuggendo anche alla mia propria censura.
Per te scrivere è un mestiere o un modo di contestare lo status quo?
Riuscire a creare modi di vedere diversi, che è quello che fanno tutti i grandi scrittori, è un modo di decostruire lo status quo, e in qualche modo di contestarlo. Ma anche solo trovare parole diverse per dire il reale è un’azione sovversiva. Perché la lingua riflette e alimenta la conformità, tende a corroborare le visioni che vanno per la maggiore, quelle dominanti. Paradossalmente essa contiene però anche tutte le potenzialità, e è questo che mi affascina, per scardinare i luoghi comuni.
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Giacomo Sartori e Elena Tognoli, Rasoterrra, Il Cardo Società Cooperativa Sociale Onlus, 2024.