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Ron Rash anteprima. Serena

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Serena di Ron Rash (La Nuova Frontiera, 384 pagine, euro 20, traduzione di Valentina Daniele) arde come legna viva, e lascia dietro di sé un’ombra lunga, greve, che sembra avvolgere le colline della Carolina.

Al centro della narrazione una donna spietata, assetata di potere, capace di far morire un albero e un uomo con la stessa facilità. Ogni passo scuote la foresta e il cuore di chi osa opporsi alla sua volontà. Accanto a lei, George Pemberton, ombra del suo potere. Insieme lasciano morti e case svuotate e, nelle notti silenziose, persino gli animali sembrano trattenere il respiro.

È attraverso dettagli minimi — un ramo che si piega, uno sguardo che tradisce paura — che Rash riesce a mostrarci la crudeltà e farla divenire tangibile.

Serena cavalca tra gli alberi sul suo stallone bianco, e ogni passo è un comando. Sul braccio, un’aquila addestrata a uccidere serpenti a sonagli segue i suoi occhi freddi, attenta a ogni movimento. La sua avidità non ha spiegazioni, ma le mani che stringe e gli sguardi che incrocia raccontano piccoli frammenti della sua ambizione senza anima.

Quando Serena devia in una direzione orribile, tutto crolla: la coppia, la foresta, le vite intrecciate alle loro. Il lettore rimane sospeso tra meraviglia e terrore, catturato non solo dalla crudele bellezza del mito che Rash costruisce, ma dalla percezione concreta della violenza e del silenzio che essa lascia.

Serena non è solo la storia di una donna e di un uomo: è il canto oscuro che si nasconde dietro ogni gesto di dominio. Rash trasforma l’avidità in mistero, mostrandoci la figura di una donna indomabile che fa sfoggio con sfrontatezza degli abissi che la abitano.

Nancy Citro

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Quando Pemberton tornò sulle montagne del Nord Carolina dopo tre mesi passati a Boston a sistemare la proprietà di suo padre, tra le persone in attesa sulla banchina alla stazione c’era

una giovane donna, incinta di suo figlio. Era accompagnata dal padre, che sotto la finanziera lisa portava un coltello da caccia, affilato con grande cura quella mattina stessa perché penetrasse più a fondo possibile nel cuore di Pemberton.

Il capotreno gridò «Waynesville» mentre il treno si fermava sobbalzando. Pemberton guardò fuori dal finestrino e vide sulla banchina i suoi soci, vestiti elegantemente per incontrare quella che da due giorni era sua moglie, un regalo inaspettato del viaggio a Boston. Buchanan, il solito dandy, si era impomatato baffi e capelli. Le scarpe con i lacci erano lucidissime e la camicia di cotone bianco stirata di fresco.

Wilkie indossava un cappello floscio grigio, come faceva spesso per proteggere la pelata dal sole. Una chiave Phi Beta Kappa di Princeton scintillava sul taschino dell’orologio, mentre dall’altro, sul petto, spuntava un fazzoletto di seta blu.

Pemberton aprì il coperchio d’oro del suo orologio e scoprì che il treno era puntuale al minuto. Si voltò verso la sua sposa, che si era addormentata. I suoi sogni erano stati particolarmente tormentati la notte prima; per due volte, agitandosi, l’aveva svegliato, afferrandosi a lui con forza finché non si era riaddormentata. Lui la baciò lievemente sulle labbra e lei si svegliò.

«Non proprio il posto migliore per un viaggio di nozze.»

«Per noi va più che bene» disse Serena, appoggiandosi alla sua spalla. «Siamo qui insieme, e solo questo conta.»

Pemberton inspirò il profumo vivace del talco Tre-Jur e ripensò a quella mattina, quando non solo ne aveva sentito l’odore ma ne aveva anche gustato la vividezza sulla pelle di lei. Un facchino avanzò nel corridoio, fischiettando una canzone che Pemberton non riconobbe. Tornò a guardare dal finestrino.

Accanto alla biglietteria, Harmon e sua figlia aspettavano; lui era appoggiato mollemente alla parete di assi di castagno. Pemberton si rese conto all’improvviso che i maschi di queste montagne raramente stavano dritti. Preferivano appoggiarsi a un albero o a un muro ogni volta che era possibile. Se in giro non ce n’erano si accosciavano, con le natiche contro i talloni. Harmon aveva in mano un bicchiere da una pinta, il cui contenuto copriva appena il fondo; la figlia era seduta sulla panca, con la schiena ben dritta per mostrare meglio la sua condizione. Pemberton non ricordava il suo nome. Non era sorpreso di vederli, né che la ragazza aspettasse un bambino.

Il suo bambino, come aveva appreso la sera prima che lui e Serena partissero da Boston. «Abe Harmon è qui e dice che deve risolvere una faccenda con te, una faccenda che riguarda sua figlia» aveva detto Buchanan quando aveva chiamato. «Potrebbero essere ciance da ubriaco, ma ho pensato che fosse meglio dirtelo.»

«Nel nostro comitato di benvenuto ci sono anche alcuni elementi locali» disse Pemberton a sua moglie.

«Come ci era stato detto» disse Serena.

Posò la mano destra sul polso di lui, per un istante, e Pemberton sentì la pelle dura sulla parte superiore del palmo, la semplice fede d’oro che portava al posto del solitario. L’anello era in tutto e per tutto identico al suo, tranne che nella misura. Pemberton si alzò, prese due valigie dallo scomparto sopra i sedili e le porse al facchino, che rimase dietro a loro mentre Pemberton accompagnava sua moglie in corridoio e l’aiutava a scendere dal treno. Tra l’acciaio e il legno c’era un salto di una cinquantina di centimetri. Serena non cercò la mano di lui per scendere sulle assi della banchina.

Buchanan incrociò per primo lo sguardo di Pemberton e gli fece un cenno di avvertimento per indicargli Harmon e sua figlia, prima di rivolgersi a Serena con un inchino rigido e formale. Wilkie si tolse il cappello floscio. Con il suo metro e settantacinque Serena sovrastava entrambi gli uomini, ma Pemberton sapeva che erano anche altri elementi del suo aspetto a causare l’ovvio stupore di Buchanan e Wilkie: pantaloni e stivali invece di un abito e cappello a cloche, pelle abbronzata in contrasto con la sua classe sociale, labbra e guance prive di belletto, capelli biondi e folti ma tagliati corti, a caschetto, decisamente femminili e tuttavia austeri.

Serena si avvicinò al più anziano con la mano tesa. Nonostante avesse settant’anni, quindi più del doppio della sua età, Wilkie guardava Serena come uno scolaretto innamorato, con il cappello stretto contro lo sterno quasi a nascondere un cuore già infranto.

«Wilkie, immagino.»

«Sì, sì, sono io» balbettò Wilkie.

«Serena Pemberton» disse lei, con la mano ancora tesa.

Wilkie cincischiò con il cappello per un istante prima di liberare la destra e stringere quella di Serena.

«E Buchanan» disse lei, voltandosi verso l’altro socio. «Giusto?»

«Sì.»

Buchanan prese la mano di lei e la coprì goffamente con la sua.

Serena sorrise. «Non sa come si stringe una mano, signor Buchanan?»

Pemberton guardò divertito Buchanan che correggeva la stretta e ritirava subito la mano. Nell’anno in cui la Boston Lumber Company aveva cominciato a lavorare in quelle montagne, la moglie di Buchanan era venuta una sola volta, con indosso un abito di taffetà rosa che si era sporcato ancora prima che attraversasse l’unica strada di Waynesville per entrare nella casa di suo marito. Aveva trascorso lì una sola notte ed era ripartita con il treno del mattino. Ora Buchanan e sua moglie si vedevano una volta al mese, per un fine settimana, a Richmond, il punto più a sud in cui la signora Buchanan era disposta ad arrivare. La moglie di Wilkie non aveva mai lasciato Boston.

I soci di Pemberton sembravano incapaci di dire altro. I loro sguardi continuavano a fissarsi sui pantaloni da equitazione di pelle che indossava Serena, sulla sua camicia Oxford beige, sugli stivali neri. La dizione perfetta e la postura di lei confermavano che aveva frequentato una scuola privata femminile del New England, come le loro mogli.

Ma Serena era nata in Colorado e aveva vissuto lì fino a sedici anni, figlia di un commerciante di legname che le aveva insegnato a stringere la mano come si deve e a guardare gli uomini negli occhi, oltre che a sparare e ad andare a cavallo. Era venuta a Est solo dopo la morte dei genitori.

Il facchino posò le valigie sulla banchina e tornò verso la carrozza bagagli dove c’erano ancora il baule da viaggio di Serena e quello di Pemberton, più piccolo.

«Deduco che Campbell abbia portato l’arabo al campo» disse Pemberton.

«Sì» rispose Buchanan «anche se ha quasi ammazzato il giovane Vaughn. Quel cavallo non è grande ma è focoso, “cut proud” come dicono.»

«Che notizie ci sono dal campo?» chiese Pemberton.

«Nessun problema serio» disse Buchanan. «Un operaio ha trovato delle tracce di lince rossa sul Laurel Creek e ha creduto che fossero di un giaguaro. Un paio di squadre si sono rifiutate di tornare lassù finché Galloway non è andato a controllare.»

Serena disse: «Ci sono molti giaguari da queste parti?»

«Niente affatto, signora Pemberton» rispose Wilkie in tono rassicurante. «Sono lieto di dirle che l’ultimo di questo stato fu ucciso nel 1920.»

«Eppure gli abitanti credono che ne sia rimasto ancora uno» disse Buchanan. «Girano parecchie leggende, che gli operai conoscono bene, non solo su quanto è grande ma anche sul colore, che va dal fulvo al nero inchiostro. Io sarei contento se restasse una leggenda, ma suo marito la pensa diversamente. Lui vorrebbe che fosse vero, per potergli dare la caccia.»

«Questo prima del matrimonio» osservò Wilkie. «Ora che Pemberton è un uomo sposato, sono certo che preferirà passatempi meno pericolosi della caccia ai giaguari.»

«Spero invece che gli dia la caccia e rimarrei delusa se facesse altrimenti» disse Serena, parlando sia a Pemberton che ai suoi soci. «Pemberton è un uomo che non teme le sfide: è il motivo per cui l’ho sposato.» Fece una pausa, con un piccolo sorriso. «E il motivo per cui lui ha sposato me.»

Il facchino posò il secondo baule sulla banchina. Pemberton gli dette un quarto di dollaro e lo licenziò. Serena guardò il padre e la figlia, ora seduti entrambi sulla panchina, attenti e silenziosi come attori che aspettano la battuta d’entrata.

«Non vi conosco» disse Serena.

La figlia la guardò imbronciata. Fu il padre a parlare, farfugliando.

«Non sono affari suoi. Sono di quello che sta vicino a lei.»

«I suoi affari sono i miei» disse Serena «quanto i miei sono i suoi.»

Harmon indicò il ventre della figlia, poi si rivolse a Serena.

«Non questo. È successo prima che lei arrivasse.»

«Sta insinuando che lei porti in grembo il figlio di mio marito.»

«Io non insinuo niente» disse Harmon.

«Allora è un uomo fortunato» gli disse Serena. «Non troverà miglior esemplare con cui incrociarla. Le dimensioni del suo addome lo confermano.» Serena rivolse sguardo e parole alla figlia. «Ma è l’unico che avrà da lui. Ora ci sono io. Qualsiasi altro figlio lo avrà da me.»

Harmon si alzò in piedi e Pemberton intravide il manico di madreperla del coltello prima che la giacca vi si richiudesse sopra. Si domandò come facesse un uomo così ad avere un’arma tanto bella. Forse una vincita a poker o un’eredità da qualche antenato più prospero. La faccia del capostazione apparve dietro il divisorio di vetro, indugiò un istante, poi sparì. Un gruppo di montanari allampanati, tutti dipendenti della Boston Lumber, guardavano impassibili da una stalla vicina.

Tra loro c’era un supervisore di nome Campbell, tra i cui molti compiti c’era anche fare da collegamento tra operai e proprietari. Campbell indossava sempre camicie grigie di tessuto chambray e pantaloni di velluto a coste sul lavoro, ma quel pomeriggio portava una tuta come gli altri. “È domenica” pensò Pemberton momentaneamente disorientato. Non ricordava l’ultima volta che aveva guardato un calendario. A Boston, con Serena, il tempo gli era parso intrappolato nel moto circolare delle lancette dell’orologio: ore e minuti incapaci di liberarsi e diventare giorni. Ma erano stati giorni e mesi, come dimostrava il ventre rotondo della figlia di Harmon.

La grande mano lentigginosa del padre si afferrò al bordo della panchina, e lui si sporse leggermente in avanti. Gli occhi azzurri erano fissi su Pemberton, minacciosi.

«Andiamo a casa, papà» disse la figlia, posando la mano sulla sua.

Lui l’allontanò come una mosca fastidiosa e si alzò, vacillando appena.

«Maledetti, tutti e due» disse Harmon, facendo un passo verso i Pemberton.

Aprì la redingote e liberò il coltello da caccia dal fodero di cuoio. La lama brillò al sole del tardo pomeriggio e per un attimo sembrò che Harmon avesse in mano una fiamma.

Pemberton guardò la figlia di Harmon, che si coprì l’addome con le mani come a proteggere il nascituro da ciò che stava accadendo.

«Porta a casa tuo padre» le disse Pemberton.

«Papà, per favore» disse la figlia.

«Andate a chiamare lo sceriffo McDowell» gridò Buchanan agli uomini che guardavano dalla stalla.

Un caposquadra di nome Snipes ubbidì, incamminandosi rapidamente non verso il tribunale ma verso la pensione dove abitava lo sceriffo. Gli altri uomini restarono dov’erano. Buchanan fece per mettersi fra i due contendenti, ma Harmon lo allontanò agitando il pugnale.

«Questa faccenda la sistemiamo ora» gridò.

«Ha ragione» disse Serena. «Prendi il pugnale e sistemala ora, Pemberton.»

Harmon fece un passo avanti, accorciando la distanza fra loro, sempre vacillando appena.

«È meglio che le dai retta» disse Harmon, facendo un altro passo, «perché uno di noi due se ne andrà di qui con i piedi in avanti.»

Pemberton si chinò ad aprire la valigia di pelle di vitello, rovistò all’interno in cerca del regalo di nozze fattogli da Serena. Estrasse il coltello da caccia dal fodero e strinse nel palmo l’impugnatura di osso di alce, la cui ruvidezza assicurava una presa più salda. Per un lungo istante Pemberton si concesse di apprezzare la sensazione di un’arma ben fatta, solida e bilanciata; lama, elsa e manico calibrati con precisione, come le spade con cui faceva scherma a Harvard. Si tolse la giacca e la posò sulla valigia.

Harmon fece un altro passo avanti: ora erano a meno di un metro di distanza. Teneva il pugnale in alto e puntato verso il cielo e Pemberton sapeva che, ubriaco o sobrio, si era battuto ben poco con il coltello. Harmon tirò un fendente all’aria. I suoi denti ingialliti dal tabacco erano serrati, le vene

del collo tese come cavi d’acciaio. Pemberton teneva il coltello basso, accanto al fianco. Il fiato di Harmon sapeva di whisky di contrabbando, un odore acre, unto, simile a petrolio grezzo.

Harmon si lanciò in avanti e Pemberton alzò il braccio sinistro, bloccandogli l’avambraccio e interrompendo la traiettoria del suo coltello. Harmon arretrò e la lama graffiò l’avversario, che fece un ultimo passo avanti e affondò il pugnale, tenuto di piatto, sopra l’anca sinistra dell’uomo più anziano, squarciando la giacca e la camicia. Afferrò la spalla di Harmon con la mano libera per far leva e un sorriso sottile apparve nello stomaco dell’uomo. Un bottone di legno di cedro saltò

dalla camicia bianca di Harmon e finì sul pavimento di assi, roteò su sé stesso per un attimo e poi si fermò. Quando Pemberton estrasse la lama si udì una specie di lieve risucchio. Per qualche secondo non uscì sangue.

Il coltello di Harmon cadde sulla banchina. Come se avesse voluto annullare i passi che l’avevano portato a quel punto, il montanaro si portò entrambe le mani all’addome e arretrò lentamente, poi si accasciò sulla panca. Alzò le mani per esaminare il danno e gli intestini gli finirono in grembo, come morbide corde grigie. Harmon osservò i meccanismi interni del suo corpo come per confermare ulteriormente il proprio destino. Sollevò la testa un’ultima volta e l’appoggiò alle assi della parete della stazione. Pemberton distolse lo sguardo quando gli occhi azzurri di Harmon si fecero vacui. Ora Serena era accanto a lui.

«Il braccio» disse.

Pemberton vide che la camicia di popeline azzurro era tagliata sotto al gomito e scura di sangue. Serena sganciò uno dei gemelli d’argento e arrotolò la manica, per esaminare la ferita all’avambraccio.

«Non ci vorranno i punti» disse «solo tintura di iodio e una fasciatura.»

Pemberton annuì. Era ancora carico per l’adrenalina e quando Buchanan, preoccupato, accostò il viso al suo, i lineamenti del socio (la siepe nera e curata dei baffi, tra il naso stretto e appuntito e la bocca piccola, gli occhi verdi, pallidi e rotondi, che sembravano sempre stupiti) gli parvero al tempo

stesso vividi e remoti. Pemberton fece alcuni respiri regolari: voleva ricomporsi prima di parlare con chicchessia.

Serena raccolse il coltello da caccia e lo portò alla figlia di Harmon, che era china su suo padre e gli teneva il viso inerte fra le mani, vicino al suo, come se avesse potuto trasmettergli ancora qualcosa. Le lacrime scorrevano sulle guance della ragazza, ma lei non emetteva suono.

«Ecco» disse Serena, tenendo il coltello per la lama. «Secondo giustizia appartiene a mio marito. È un bel coltello e potrà chiedere un buon prezzo. Io lo farei» aggiunse. «Lo venderei, intendo. Il denaro le servirà quando nascerà il bambino. È tutto quello che avrà da mio marito e da me.»

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