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Ciberneti. Intervista a Francesco Maria Terzago

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Ciberneti è un libro di Francesco Maria Terzago, uscito per Samuele editore nel 2022, che dà l’idea di una chirurgia letteraria del microcosmo nel frattale immenso di un caosmo in cui «l’incubo supera la realtà, vince sulla realtà» e la poesia sposta lo sguardo da occhi automatici di un linguaggio artificiale che si spalanca su un mondo reale, estraneo. L’esito della scrittura è il godimento che si prova nel gioco del costruire il mondo che desideriamo: «quando mi accorgo che ogni testo trova la sua collocazione, interagisce con gli altri, mi ritengo soddisfatto», nel manipolare materiaimmateriale a costruire mondiparole. Questo è l’albero motore delle cose nelle scene d’un libro che «potrebbe essere un film» per tagli di lucescrivente e montaggi di azioni cinematiche, albero di libero pensierorespiro, apertura senza pregiudizio al proprio sentire, con la logica conseguenza di non poter avallare alcuna censura che limiti «le nostre azioni e il perimetro del nostro desiderio in relazione a molteplici forme di conformismo» (quando è autocensura) e quella che alimenta, e ci alimenta, i social: «quella meno discussa. Quella che si opera in modo più semplice e, per questa ragione, è accessibile a qualsiasi persona. La prevaricazione violenta che presuppone un appello alle emozioni.» La sabbia di Ciberneti origina da enormi blocchi minimi di sintagmi contratti tra loro, e scivola tra livelli e sottolivelli di significato salti quantici che il suonoparola compie, trasbordando lo sguardo dall’occhio alle molteplicità delle cose, sicché «lo scrivente è accompagnato dal pensiero che ciò che libera sulla pagina è la sedimentazione di una eterogeneità di input; è in questi termini, un’opera collettiva, saperi sovrapposti, relazioni». Quella di Terzago in Ciberneti è una scrittura cinepoetica sul confine che spinge l’umano verso l’inorganico, a renderlo s-oggetto performatico, residuo soggettuale del rito, della continuità, nel transito desiderante della descrittura cibernetica…

Gianluca Garrapa

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Qual è stata la genesi e il desiderio a scrivere il tuo libro?

Desideravo muovermi negli spazi interstiziali della lingua, trasferire nelle geografie della poesia alcune modalità di comunicazione, così da operare su di esse una sovversione – questo perché per molti anni ho lavorato nel settore tecnico, attraversando fabbriche robotiche, subendo io stesso la fascinazione di queste macchine, sperimentando quella che Anders definiva “vergogna prometeica”; mi chiedevo se sarebbe stato possibile, e come, utilizzare il registro dei tecnici, degli ingegneri, con una finalità espressiva capace, da un lato, di testimoniare i processi di alienazione e, dall’altro, l’allontanamento da ogni altro vivente [mentre ci si confonde con le lamiere, i progetti, le simulazioni di produzione]. Considerare poi vari “spostamenti di punto di vista” per utilizzare un’espressione di New Italian Epic, ancora: “l’eroe epico, quando c’è, non è al centro di tutto ma influisce sull’azione in modo sghembo. Quando non c’è, la sua funzione viene svolta dalla moltitudine, da cose e luoghi, dal contesto e dal tempo”. 

Mi interessava riportare sulla pagina gli esiti di una rimozione, quella agita dalla tecnica sulle menti, le persone la cui vita è totalizzata dall’esperienza industriale descrivono gli altri viventi utilizzando i codici da cui sono state colonizzate. Mi riferisco alla disponibilità lessicale quando si desidera descrivere qualcosa di sconosciuto: per riferire il colore di un fiore al nostro gruppo sociale adoperiamo immagini artificiali come il luccichio di un led, o ciò che compare su uno schermo, un paesaggio virtuale: quello dei videogame che ognuno di noi ha “abitato”.

Ciberneti è diafano, se a leggerlo è uno specialista dell’automazione. Per il restante pubblico può parere una produzione fantascientifica anche se non è così. A riprova del fatto che oggi, il capitale, il produttivismo, genera un immaginario che trafila nelle nostre vite a una rapidità superiore delle utopie che utilizziamo a sua anteposizione. L’incubo supera la realtà, vince sulla realtà – e noi popoliamo questo incubo alla costante ricerca di improvvisi meati, aperture su ulteriori dimensioni del possibile.

Quando scrivi, godi?

Sì, sono mosso dal piacere della scrittura, scrivo, costruisco, ciò che desidero leggere, luoghi letterari in cui voglio sostare. 

Cerco costantemente di generare interazioni tra i testi che compongono uno dei miei libri-progetto, inserirli in una geografia – come se si trattasse di isole – elementi che hanno una continuità geologica che però è mascherata dall’acqua. Quando mi accorgo che ogni testo trova la sua collocazione, interagisce con gli altri, mi ritengo soddisfatto; è qualcosa – rimanendo a Ciberneti – di frankensteiniano: si prendono tutti questi pezzi, queste situazioni, questi lacerti linguistici, e gli si dà una nuova fisiologia [l’attività poetica è compost, è riuso]. I fluidi sono rimessi in circolo, i tessuti rivivono. Allo stesso modo si comporta la voce, quella che attraversa le vicende; è una voce brulicante e macchinale allo stesso tempo, una voce-moltitudine dalla quale sfuggono improvvise individualità: cangiante materiale di risulta. 

Un estratto dal libro che è risultato più difficile o particolarmente importante: perché? Lo puoi trascrivere qui?

Flessibile” è capace di riassumere molte delle cose di cui ho scritto fino a questo momento, eccola:

Un improvviso gelo, poi una sensazione, al dito,

di quiete. il flessibile che gira con stanchezza

proietta il sangue sul pavimento verniciato di verde,

così sul basamento zincato – che sembra

uno sfrigolio led all’apice dei circuiti.

Pulire quando il lavoro sarà finito.

non dici nulla. Prendi il rocchetto

del nastro isolante e stringi la carta assorbente

sulla ferita, incapsulandola. Riaccendi

il flessibile. Pareggi il ferro e poi guardi

in direzione delle cassette di plastica:

le bocche di lupo impilate una sull’altra.

Pensi al loro contenuto, alle viti di acciaio

inossidabile, ai gomiti zincati. Alla loro

immediata sostituibilità e resistenza

a fatica, alla loro sincerità. dai un tiro

alla sigaretta e quella svampilla. Poi

ti massaggi le cervicali lamentandoti

con te stesso di quella ulteriore

perdita di tempo (due realtà che procedono

in una direzione temporale differente

non possono comunicare).

A quel punto li vedi. Sono sotto al banco.

incastrati gli uni sugli altri, così

da occupare il minor spazio possibile,

gli elementi che sono stati sostituiti

nel rinnovamento dell’impianto perché quello

possa tornare a produrre. Qualcuno è coperto

di concrezioni calcaree, una statua di coralli morti,

una patina che sarebbe troppo oneroso rimuovere

per dare chiarezza ai lineamenti. Altri, ossidati,

forse non garantiscono più le prestazioni meccaniche

per le quali gli insondabili progettisti li hanno

inseriti nel disegno [il corpo dei macchinari

è inalterabile]. il corrugato, però, spezza l’ombra,

taglia il confine, e quasi raggiunge il piede sinistro

con qualche tubicino blu e cavi sfribrati.

ti trasferisci in loro. Le cellule si combinano

al reticolo cristallino dei minerali, della perlite,

vedi gli spigoli perdere gradualmente ogni gibbosità.

Le filettature ripristinarsi, elica innocente

di una chiocciola. Ogni asperità superficiale è

un ematoma che si riassorbe.

un giorno le macchine potranno guarire e

ci insegneranno a guarire.

Se non fosse scrittura, cosa potrebbe essere il tuo libro?

Potrebbe essere un film. Intendo dire che in ciò che scrivo c’è sempre un’idea di montaggio, di scena; ognuno di noi ha visto migliaia e migliaia di ore di immagini in movimento: serie, pubblicità, lungometraggi – abbiamo acquisito passivamente la capacità di assemblare sequenze, quando visualizziamo una scena lo facciamo, inavvertitamente, con dei movimenti di camera. 

Che rapporto hai con la censura? 

Quella più pericolosa è quella sottile: l’auto-censura. Ciò che limita le nostre azioni e il perimetro del nostro desiderio in relazione a molteplici forme di conformismo, e opportunità – non dirò questo, non farò questo, perché questo atteggiamento mi conviene, perché se dico questo o faccio questo mi giudicheranno. Non credo che questo si debba confondere con la necessità di contribuire ad alimentare specifiche urgenze, cioè rappresentare determinate istanze espungendo altre, non bisogna concedere nessuna agibilità – sventolando l’abusato vessillo della libertà di espressione – all’intolleranza. 

Temo gli opportunisti perché, pensando solo a loro stessi, danneggiano la loro stessa comunità, antepongono i loro interessi a quelli della moltitudine; mostrano la loro coerenza in un unico aspetto del loro vivere: la familiarità con il potere, qualsiasi forma esso assuma (gli opportunisti hanno capacità camaleontiche). 

Così utilizzeranno le loro energie, la forza della loro scrittura, per affabulare, E lo faranno a dimostrazione del loro servilismo, cioè per ottenere, dai vertici, le briciole del banchetto. 

C’è poi un’ulteriore censura, quella meno discussa. Quella che si opera in modo più semplice e, per questa ragione, è accessibile a qualsiasi persona. La prevaricazione violenta che presuppone un appello alle emozioni. La incontriamo ogni giorno, sui social. Un rumore di fondo alimentato da miliardi di esternazioni violente in rapida successione e prive di qualsiasi argomento e che soffoca ogni contenuto che cerca di esprimere la complessità. Proprio perché, argomentare, richiede competenze e dispendio di energie cognitive. Il tempo che richiede una risposta situata è infinitamente maggiore rispetto a condividere uno slogan, insultare e ferire qualcuno – ma questa miriade di messaggi d’odio è ciò che alimenta la ricchezza stessa di META e X, un fiotto continuo di parole, un botta e risposta, che ci trattiene davanti allo schermo, orienta il nostro sentire, ci fa stare male, legittima i nostri pregiudizi e dà forza alle nostre paure, mentre siamo bombardati da pubblicità, da inserzioni.

Per te scrivere è un mestiere o un modo di contestare lo status quo?

Scrivere suggerisce domande e ci ricorda la complessità in cui ci muoviamo, in cui dobbiamo muoverci, la ricorda sia al lettore che, nella fase di produzione, allo scrivente. Lo scrivente è accompagnato dal pensiero che ciò che libera sulla pagina è la sedimentazione di una eterogeneità di input; è in questi termini, un’opera collettiva, saperi sovrapposti, relazioni. La poesia, per come io la intendo, non può essere direttamente profittevole: il tempo richiesto per produrla è così tanto che non è possibile un ritorno d’investimento – se non in modo accidentale.

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Francesco Maria Terzago, Ciberneti, Samuele editore 2022.

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