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Il giorno della nutria. Intervista ad Andrea Zandomenighi

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Andrea Zandomeneghi, Il giorno della nutria, Tunuè editore, 2019

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Alcune domande sulla vita dell’autore durante la stesura di questo romanzo:

G.G.: Dove scrivevi, quando scrivevi, che facevi tra una pausa e l’altra?

A.Z.: Scrivevo sul terrazzo di casa mia, scrivevo di prima mattina, tra una pausa e l’altra fumavo sigarette facendo avanti e indietro sul terrazzo.

G.G.: In quali luoghi è nato il romanzo?

A.Z.: Esattamente dove è ambientato: a Borgo Carige, Capalbio.

G.G.: L’hai scritto interamente al pc oppure a mano?

A.Z.: L’ho scritto su una miriade di foglietti sparsi, di vecchie agende, di quaderni. Soprattutto le digressioni. Le parti più narrative invece le ho scritte direttamente al pc.

G.G.: Durante la stesura del romanzo capitava di passeggiare in bici, in auto, a piedi e osservare alberi, scrutare edifici, finestre, affondare lo sguardo nel cielo, seguire le onde del suono e dell’acqua e trovare un’ispirazione?

A.Z.: No, mai, l’ispirazione è sempre venuta da dentro.

G.G.: Fumavi o bevevi durante la stesura del tuo romanzo?

A.Z.: Fumavo moltissime sigarette, senza soluzione di continuità. Bevevo poi Tennent’s ma solo a fine giornata quando mettevo da parte il lavoro.

G.G.: Quanto pesavi?

A.Z.: Quando ho iniziato il romanzo pesavo 63 kg, quando l’ho finito 98 kg. Sì, ho preso una trentacinquina di kg nel frattempo.

G.G.: Scrivevi dopo cena, la mattina prima di pranzo, quando?

A.Z.: Solo la mattina presto.

G.G.: Come definisci la scrittura di questo romanzo: di spostamento, di stasi, di spazio, del corpo, della mente?

A.Z.: Della mente, questa scrittura è stata uno sbobinare formazioni mentali, prevalentemente.

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Alcune impressioni sul romanzo

X – Io è un altro: nel romanzo di Zandomeneghi, la presenza dell’Altro è ossessiva e pressante. Soprattutto il giudizio e lo sguardo dell’altro sulla propria condizione sessuale. Romanzo fatto di sguardi, di occhi, di esibizionismi e voyeurismi. Un continuo osservare e osservarsi, […] quel nodo era l’occhio d’un cane lupo orientale con gli occhi a mandorla truccato da pierrot. A sua volta mi stava osservando […]

È un Altro megalomane che vuole arrivare, costi quel che costi, in alto, dappertutto. Ma c’è anche un’abbondanza di io narrante che appiattisce tutti i personaggi, la madre, il nipote, la badante e suo figlio, Emanuele e Don Stefano, a un’unica voce, come se il regista narrante indossasse, di volta in volta, i panni dell’Altro per sottometterlo al dominio del proprio Ego.

Un grande assente del romanzo, invece, è il corpo: vidi il mio corpo e mi disgustò. Il corpo è martoriato, spezzato, ferito, tumefatto, riempito di alcool, di psicofarmaci, il corpo è un mezzo per la propria soddisfazione sessuale e mentale, c’è il corpo che si trasforma, che sogna e che imputridisce, afflitto dall’ossessione del disturbo inconscio: ma non c’è mai il corpo che parla, è solo e unicamente il pensiero, geniale, ipertrofico e isterico, a tenere le fila del discorso: il romanzo non trasuda emozione, è davvero un dettato freddo e cristallino e puro; se la letteratura è iperpresente e un certo filone filosofico e mistico a volte prevaricano la narrazione tout court, e il saggio prende il sopravvento sulla ‘drammaturgia’, la musica e l’ascolto tacciono

Lou Reed poeta americano (Caggiano), La grande strategia dell’Impero romano (Luttwak), L’urss vista da vicino (Andreotti), Teoria del romanzo (Mazzoni), Trattato di ateologia (Onfray), La strega (Michelet), Elogio della masturbazione (Brenot), Per il nuovo pci (Schiavone), Saggio sulla visione degli spiriti (Schopenhauer), Teoria della questione agraria (Lenin), Malinconia (Borgna), Fotti il potere (Cossiga), Le donne e la pazzia (Chesler), Il linguaggio del cambiamento (Watzlawick), La grande strategia dell’Impero bizantino (Luttwak), Breviario dei politici (Mazzarino), La sciarada di Papa Mastai (Andreotti), Noi siamo un colloquio (Borgna), Osservazioni sulla tortura (Verri), Strategia (Luttwak), Gli spiriti e la depressione, le anime dei sogni e Freud, le possessioni mentali (Un Soggetto), Meno e meglio (Pallante), Onorevole stia zitto (Andreotti), Un uomo finito (Papini), Vita di Gesù (Hegel) – Nel nozionismo, l’elenco mi ricorda un passo di Rayuela di Cortázar, nell’eccellente citazionismo, leggo il tutto-pieno, l’insofferenza del vacuo, del vuoto, e le pratiche di assunzioni di psicofarmaci e alcool confermano questa tragicomica incapacità, generazionale direi, e epocale, di sopportare il vuoto, la giusta misura, il limite. Gli elenchi che numerano quantità post-postindustriali di termini e nomi, più che ostentazione fine a sé stessa, è una sorta, a mio parere, di sottile forma di ‘potere culturale e cultuale.

Evidente è il godimento materno in questo romanzo, un narrante nelle mani del godimento dell’Altro: Altro materno, Altro sociale. A tratti la scrittura desiderante prorompe proustiana, busiana, fuoriclasse, e l’indole del narratore è proprio quella, ma ecco che la legge del Padre, sebbene subito liquidato nell’incidente d’auto, e sbeffeggiata egregiamente nel parroco, torna nelle autorità letterarie, nei cavilli del misticismo, dell’essere e il non-essere, Dio, la religione, gli alieni, passaggi simili a assurdità giuridiche pretestuose e palesemente prive di qualunque utilità, per riprendere le parole della scena del capitolo 11 in cui l’ariosa e polifonica, oltre che magistrale, descrizione della casa, del vuoto e dello spazio circostante, della storia famigliare, ripiomba, in quella trafila codicilla giuridica che rende comico il personaggio, ma appunto soffocando l’azione, rallentando il ritmo.

La nutria è un romanzo sulla Cosa: Io la volevo negare al più presto. Volevo ributtarla nel baratro del nulla da cui proveniva. Mi disturbava, ma non volevo sapere perché mi disturbasse, volevo solo che togliesse immediatamente il disturbo. Troncare, la cosa mistica, la cosa materna, sul Reale scabroso dell’imprevedibile. Un filosofico, e a tratti poetico e narrativo bordeggiare il vuoto di Das Ding, il godimento materno, Il godimento è inebriante, crudele, crudele proprio del pensiero. La nutria, nutrimento, come nutrimento dell’Altro sono i farmaci e le urla materne, appare a deflagrare le certezze immaginarie dell’autore. La Cosa scritta di Zandomeneghi è agile e malefica. Gentile e disponibile e anche impetuosa, impervia e ostile. Indossa la maschera genialoide del male di scrivere. Nella nutria ci leggo le ferite di una voce che tampona il vuoto impossibile a sopportare con le parole riferite e adottate, imperiose, caparbie, caparbio nel sapere, Capalbio nella breve e leggera, e pure notevole descrizione, con le regole, con la legge autoimposta della reazione chimica del farmaco mischiato al naturale vino. Un essere della scrittura che nel desiderio evoca Proust, Busi, De Martino, nelle cadute rovinose del gesto rotto di Carmelo Bene, nella colpa che colloca il soggetto narrante davanti al proprio incedere narrativo. Viene da pensare che la congerie di riferimenti letterari, non sia altro che inciampo, e l’inciampo è il motore del testo. Alla Carmelo Bene, appunto. E lo si capisce alla fine, nella caduta che scioglie il mistero, che apre il desiderio represso, lo spessa e lo congela: la nutria. A questo desiderio, a invalicabile contrappunto, la morte dell’orale, del sentire, del non calcolato: Era la mia morte, o la morte del mondo, del reale. È un romanzo autoanalitico, ma non mi pare affatto un giallo, nemmeno all’incontrario, ma filosofico e lì per lì a essere un saggio delle idee, sì. Un saggio sul giudizio dell’altro, un essere guardato paranoico dall’Altro, un ossessivo e delirante, a volte stucchevole, esser visti da vicino che acceca, castra le potenzialità.

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Alcune domande sul romanzo:

G.G.: Una delle originalità del romanzo, il nulla era il mio confidente, mio fratello gemello, il mio alter ego, il detentore del principio di verità, sono i personaggi ridotti a maschere linguistiche, alter ego che ribadiscono l’unica realtà e l’unica trama di questa narrazione: l’ego dello scrittore: come sei riuscito a rendere polifonico l’io narrante?

A.Z.: Rendendolo viscoso e macroscopico: la scrittura aderisce alle cose e ai soggetti di cui parla e allo stesso tempo li ingrandisce funzionando da microscopio. È così che l’altro – financo la parola dell’altro – viene inglobato nell’io narrante che lo fruga e lo fagocita stando però ben attento a non nullificarlo, perché una volta assimilato e accomodato – per dirla alla Piaget – lo restituisce al lettore.

G.G.: Nel tuo romanzo la musica è assente, non c’è ascolto. Per lo meno questa è la mia impressione: che ci puoi dire al riguardo? È davvero così poco importante, nella tua scrittura, il sentire rispetto al pensare?

A.Z.: Il romanzo è programmaticamente cervellotico e cerebrale, il fulcro di tutto è la testa dolorante di Davide, niente arriva immediato, tutto non è altro che formazione mentale che s’impone o viene rievocata. Del resto la mente di Davide è ossessiva e le ossessioni si mangiano il mondo. Definirei questa tecnica – che è anche un’impostazione teorica – come ‘il primato dell’ossessione sul reale’.

G.G.: È percepibile, a volte a scapito dell’originalità autoriale, la rievocazione di autorità letterarie, fra le quali, Bolaño, l’immancabile: ci spieghi quali sono state le tue influenze, nell’ambito della letteratura, della filosofia, del cinema, nella stesura del romanzo?

A.Z.: Nel cinema: Fellini, Bergman e Malik. Nella filosofia: Nietzsche, Schopenhauer e Jung. Nella letteratura: Bolaño, Schwob, Rabelais, Mann, Dostoevskij, Roth.

G.G.: Nel tuo romanzo, nell’eccesso di citazioni di cui personalmente, come lettore, non sentivo il bisogno e la necessità, la voce narrante riesce a sbrogliarsi egregiamente dal godimento dell’Altro e a dire il suo desiderio: come hai amalgamato il dato del culto memorialistico, il riferimento ossessivo, a volte magistralmente fastidioso, alle tue autorità, con l’elemento più singolare del tuo scrivere, il tuo incedere poetico, originalissimo?

A.Z.: Il ritmo è rallentato proprio perché ad essere preso in considerazione è un solo giorno della vita dei personaggi, un giorno che scorre lento e si fa gigantesco, alla luce di quel procedimento di cui sopra: la macroscopia. Il lato citazionistico ha principalmente funzione ironico-grottesca ed è reso nuovamente possibile dalla macroscopia.

G.G.: Come mai hai scelto proprio una nutria a rappresentare questo reale del godimento? E che importanza credi possa avere oggi la Letteratura (espressione del desiderio soggettivo e altruistico) in un ambito in cui prevale la strategia del mercato Editoriale (espressione del godimento megalomane e autistico)?

A.Z.: Ho scelto la nutria per il suo essere animale non autoctono e infestante: come le ossessioni. La letteratura è fondamentale per la salvezza dell’umano, trattasi del territorio della complessità che combatte la sua guerra contro il riduzionismo imperante e pervasivo del nostro mondo. Se venisse meno la letteratura l’uomo non sarebbe più tale, assomiglierebbe invece a un insetto.

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