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Iya Kiva. La guerra è sempre seduta su tutte le sedie

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La guerra è sempre seduta su tutte le sedie” di Iya Kiva (La Vita Felice, 2024 pp. 128 € 14.00) nella traduzione di Yuliia Chernyshova e Pina Piccolo, analizza, nella concentrazione spietata e crudele dell’istinto distruttivo, l’evento devastante della guerra, nelle sue implacabili dinamiche funeste, scompone l’acuta riflessione sul male in sé in un esercizio poetico tenace e inalterabile, oltre il confine desolato dei versi, saccheggiato dall’insanabile ostilità degli eventi, condensa l’ineluttabile crimine nell’atroce responsabilità della coscienza, nell’ignobile incompletezza della natura umana. “e ora le parole mi cadono dalle tasche/come chiavi di un alloggio temporaneo/dopo ogni tentativo di accendere la luce/e il vento della rovina urla tra le vertebre dell’amore/per tutta la steppa occupata dal sorriso del nulla”/. La poetessa ucraina amplifica la sua voce disperata e impetuosa, realizza un’autentica evoluzione dello spirito elegiaco, alterna, tra fragilità e potenza, l’integrità dell’urgenza espressiva, accorda, nell’immediatezza di un affranto sentire, la complessità dolorosa e tormentosa dell’abitudine, inflitta tragicamente, alla guerra, l’influenza terribile e straziante del conflitto sulla lacerata quotidianità delle esistenze. Declina il linguaggio comune del cuore nella fortezza della propria solida capacità poetica, chiarisce con lo squarcio affilato e nitido dei versi la celebrazione solenne della libertà, condanna, nella sua agghiacciante dissoluzione, l’estrema colpevolezza dell’uomo. “la pioggia saluta gli esuli con le fotocartoline dagli album di famiglia/dove la guerra è sempre seduta su tutte le sedie/e sorride all’uccellino della morte con quella pallottola di bocca/come ridendo a una battuta che gli altri non sanno fare”.

Il coraggio evocativo della poesia di Iya Kiva è un’impronta profonda di intensità contro lo sradicamento sociale e la privazione della speranza, costruisce un rifugio dell’anima lungo la fenditura incendiaria delle parole, eleva l’assedio della memoria emotiva sull’orlo dell’abisso, si adagia sul territorio impervio e vertiginoso della paura, trascina e disgrega la coscienza, avvolge nel manto minaccioso dell’inquietudine, l’esplicita e tangibile cognizione del conflitto. Iya Kiva occupa il posto della resistenza all’annientamento culturale, affina il disorientamento e la mancanza di un’identità in un appello concreto alla sete di giustizia, sconcerta il lettore nel flusso ininterrotto di pensieri animati da levità e serietà. Ammette la sofferenza e la tensione dell’estraniazione dal proprio territorio, allestisce uno scenario in cui la difesa impetuosa e compassionevole di ogni vita incarna una ripugnanza alla morte, l’eco penetrante e inestinguibile delle attese insegue la necessità incalzante di ogni testimonianza. “come se si potesse uccidere la guerra con il cuscino soffocante del torpore/e sfido l’incubo dal sogno di uno sconosciuto/come un coltello dalla tasca del perdono/e il sangue non fa male/semplicemente cola/cola/cola/cola/come le lacrime delle foreste ucraine”. Lo smarrimento di ogni incursione subita seppellisce le sensazioni ma riconsegna, nonostante tutto, l’incolumità all’angoscia, cicatrizzando la salvezza.

La poetessa indica una direzione di pacificazione con se stessi e con il mondo lungo il cammino affrancato, nel riscatto della propria fede, dove il magnetico clamore della solidarietà permette di instaurare un’alleanza con l’umanità ferita e la scrittura diventa una possibilità di reagire e di agire con l’universo, donare una percezione della realtà attraverso la poesia. La raccolta poetica contiene la spaccatura inesorabile della frammentarietà, la consapevolezza su come la guerra si introduce impietosa dentro di noi, oltraggia la quotidianità, si impossessa del nostro patrimonio materiale e spirituale, sconvolge ferocemente i luoghi, trafiggendo la natura e il suo inevitabile pianto. “scoprire se stessi attraverso la forza, attraverso un “non ce la faccio”, /attraverso un “a che cavolo potrebbe servire”, /per diventare un discorso per qualcuno, una stretta di mano, /una spalla, un sussurro della casa”. La scrittura di Iya Kiva rivela una corposità profondamente palpabile e ferma, mostra lo scorrere di un tempo alienato, l’esasperazione del turbamento, il bruciore dell’amore, l’oscillazione sgomenta dell’esilio, svela il precipizio della distruzione nelle sfumature della pungente derisione.”i morti dicono: i vivi succhiano la speranza dalle nostre ossa/ma noi i suoi semi li abbiamo persi per strada/e stanno lì, di traverso, in gola, nascondendo lo sguardo/come sassi che gravano sotto le lingue dei vivi”

Rita Bompadre

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