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La regola del sogno

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Chiedete a tutto ciò che fugge, a tutto ciò che geme, a tutto ciò che scorre, a tutto ciò che canta, a tutto ciò che parla, chiedete che ora è.

Charles Baudelaire

Tienimi con tutto il corpo

Appoggiati completamente.

Dimmi se sono vivo.

Valeria Manzi

È più di mezzanotte quando bussi alla finestra di casa dei miei. Abbiamo mangiato tardi, come sempre d’estate, e sono ancora tutti svegli. Non posso venire da te finché non andranno tutti a letto. A gennaio fa tanto caldo. All’ora della siesta è torrido e umido da non respirare e a me questo clima fa sentire viva. Si suda da tutti i pori anche la sera, e i movimenti sono lenti e scelti. L’estate denuda le gambe delle ragazze e infuoca le stelle, la Cruz del Sur, le Tres Marías. E tu hai pedalato fino a casa e hai bussato alla finestra.

Mia madre chiude tutto e raccoglie dal patio le cose che potrebbero volare e quelle che potrebbero tappare gli scarichi. Hanno annunciato l’arrivo di una tempesta per questa notte. Sono salita a fumare una sigaretta nel mio terrazzino e il cielo è ancora limpido, solo questo caldo che non molla fa da premonizione.

Mi sono affacciata perché tu sappia che ti ho sentito, e ora tu aspetti senza insistere. Sai che prima o poi arrivo e io so che tu sai e sei ancora lì. Hai gli occhi che luccicano, come se avessi fatto una marachella epocale, come se avessi inventato qualcosa o scoperto un segreto. Quando tutti si sono lavati i denti e sono andati a letto mi calo dal balcone sull’aiuola con le felci, sperando che a nessuno venga in mente di salire in camera mia.

Mi siedo sul sellino di metallo montato sulla ruota posteriore della tua bici, al quale leghi i quaderni quando vai a scuola, dove ogni tanto dovrebbero bocciarti e non ce la fanno, perché li snervi tanto quanto ti amano, e ormai è l’ultimo anno, che lo bocciamo a fare. Si arrangino in qualunque università umanistica vada a parare. Ma per me potresti anche diventare uno scienziato, di quelli un po’ trasandati, genietti folli, folletti geni, che guardando i numeri cercando dove si nasconde la conferma sulla magia dell’universo.

Lascio cadere le ginocchia nel vuoto e tiro su i talloni all’indietro, mi tengo al tuo sellino e tu pedali in piedi, veloce per le strade vuote. Hai qualcosa da raccontarmi. Andiamo al bar accanto alla strada che porta fuori dal paese. Ci sono i soliti vecchietti che giocano a carte, e quel profumo fra terra e naftalina che accompagna quello di terra bagnata, che si solleva non tanto lontano.

Ti guardo dall’altro lato del tavolino, hai le pupille gonfie quando Atilio poggia una pinta di rosso, due bicchieri e una ciotola di arachidi col guscio. Rompo una arachide in concomitanza col primo tuono, che mi fa sobbalzare. Il primo tuono ti sorprende sempre. Tolgo il guscio duro, ma lascio la pellicina. Tu rompi una arachide e togli anche la pellicina, che a mano a mano farà mucchio dal tuo lato del tavolo. Versi un po’ di vino in ogni bicchiere e brindiamo come si faceva una volta, senza questo obbligo esagerato di guardarsi chissà come.

Seduto sul bordo della sedia, mi guardi e i tuoi occhi parlano, e un altro tuono frantuma l’aria più vicino. Atilio va a chiudere la porta sul retro, che da sul terreno vuoto, e poi quella d’ingresso. Scivoli indietro fino a occupare il sedile per intero, mentre con i gomiti sul tavolo ti tieni la testa tra le mani e mi guardi con quegli occhi lì e una specie di sorriso.

La pioggia inizia a battere sul tetto. Le prime gocce sono enormi, si sente dal rumore. Vengono giù come uova. Le prime gocce potresti contarle e indovinare dove cadono. Si fanno sempre più fitte, fino a quando non si rovescia di colpo il secchio intero e diventano cascata, rumore d’acqua e tuoni. Mi tendi una mano sopra il tavolo, e io appoggio sulla tua la mia, di mano. E succede come sempre quando arriva la tempesta che senza preavviso, va via la luce. È normale qui, Atilio aveva già sopra il bancone le candele bianche lunghe e dei piatti da caffè rimasti spaiati negli anni. Brucio la punta dello stoppino e rovescio la candela perché la fiamma sciolga la cera sul centro del piatto e quando ce n’è abbastanza, pianto il cero.

In notti come questa si spengono tutti i motori che ci siamo abituati a sentire. Zittisce il frigorifero in cucina, le piccole luci rosse degli apparecchi scompaiono, indicando che sono finalmente spenti davvero. Le cose dentro il frigo per un po’ si faranno fresco tra di loro e poi chissà. Rimane accesa solo la fiammella dello scaldabagno, trema per il vento che arriva dal tubo di scappamento che dà sul tetto.

Vento che monta e si alza, si sente il suo sibilo e il rumore delle cose che volano per strada. Gli uccelli non cantano già da un po’. I cani abbaiano e alcuni piangono, posso immaginarli tremare. Tremano quelli con le cucce più belle e riparate così come tremano i randagi ammucchiati negli ingressi dei palazzi.

Ho paura. Ho più che paura: sento terrore. A ogni tempesta di queste, sento che finisce il mondo. Vorrei nascondermi, dalla tempesta e dalla mia coscienza, entrare in un ripostiglio della mia mente dove non ci fossero né pensieri né sentimenti, fino a quando non passa. Perché, fino a quando non passa, io sempre sento che potrebbe non finire.

Vedi nei miei occhi la paura e appoggi l’altro braccio sul tavolo con la mano aperta, accomodo il mio gomito sulla tua mano e chiudo la mia mano sul tuo braccio. Come consigliano di fare quando salvi qualcuno in acqua o quando tieni qualcuno che pende. Io pendo da te per il terrore che mi fa la tempesta e non so cosa mi fa volare dentro l’anima questo vento. E tu che non la temi, perché premi? Da cosa ti salvo? Da dove ti porta il vento che ha acceso i tuoi occhi questa notte? Cosa hai visto che ti ha lasciato dentro tanta furia e tanta luce? Tieni le mie braccia, àncora a questo mondo in tempesta, perché tu possa affacciarti altrove. E poi tornare.

Anche i ventilatori e i condizionatori avranno smesso di funzionare nelle stanze già da un po’, e i corpi semi nudi sudano sulle lenzuola. Alcuni si cercano e si amano senza svegliarsi del tutto e il giorno dopo si chiederanno se sia stato un sogno. Altri si svegliano e si alzano, cercano qualcosa da mangiare, vanno a vedere se il cane ha paura, se entra acqua da qualche porta, e ricordano quante cose non si possono fare senza elettricità. Faccia a faccia con il buio, il silenzio e la solitudine, per una volta. Altri dormiranno tutto d’un tratto come una notte qualsiasi e domani mattina, se la tormenta sarà finita, guardando le pozzanghere diranno “Sembra sia piovuto, questa notte”.

Vedo i tuoi occhi al di là della fiamma e mi affaccio a un abisso di infinita e commovente bellezza. Navigando nei tuoi occhi indovino la fonte da dove arrivano la luce, i suoni e il calore. La vedo e non è altrove, o meglio, è qua ed è altrove, è in ogni ogni spazio dove non ci sono cose, nel vuoto, nel vento, nel nulla; come è in ogni cosa che vive e respira e cambia e cresce e suona, in ogni cuore che batte e in ogni seme che germina con dolore e con forza. È doloroso germinare, e respirare la prima volta. E poi anche altre volte lo sarà. Uscire, staccarci da questa luce primordiale e germinare in un grembo, in un guscio, sotto la terra. È dolore e meraviglia. Forse la pelle, le braccia e le mani ci siano state date in compenso, perché potessimo abbracciarci.

Per tanti anni a casa dei miei nelle notti di tempesta ha bussato un uomo brutto, gigante e minaccioso. Dal quale tentavo di scappare, ma il terrore mi paralizzava le gambe e la voce. Lui era serafico, certo che prima o poi sarebbe riuscito a entrare o che sarei dovuta uscire, e non avrei avuto scampo.

Questa sera invece sei venuto tu, con le pupille gonfie, la bocca muta, le braccia tese, le mani aperte, mi hai portato fuori dalla casa dei miei pedalando come un matto, felice e inquieto, e la tempesta in crescita ci ha dato il tempo di arrivare al bar prima di spegnere le luci e i rumori. E c’è questa candela, il fuoco, la luce più calda che si possa trovare. Mostra il giusto e protegge il resto. Scalda e consola.

In quel momento la candela si è spenta. E sarà stato il vento, il mio respiro, chissà che cosa. Ma nei tuoi occhi è rimasta la fiamma, forse anche nei miei però io non potevo vederli, e né io né te potevamo parlare. Per qualche secondo o forse minuti, o secoli, come saperlo, il tempo si è fermato e vedevo il fuoco della candela muoversi nelle tue pupille gonfie.

I vecchietti sono andati via da un po’, abitano di fianco. Il bar è comunicante con la piccola casa di Atilio che ci avvicina una coperta di lana e ci da la buonanotte. “Potete restare qua”, dice. Pieghiamo in quattro la coperta senza intoppi, danzando, la appoggiamo per terra in un angolo, ti siedi con le spalle al muro, mi sdraio di lato rannicchiata e appoggio la testa sulle tue gambe. E con un braccio mi tieni, con un braccio ricambio, e ci addormentiamo cullati dall’acqua, protetti dai tuoni che ruggiscono ai demoni, allontanandoli dalla nostra bellezza.

Quando mi sveglio sono sempre io, lontana un oceano Atlantico dalla casa dei miei, ormai da tanti anni, da metà della mia vita. I miei figli e il mio uomo dormono e si sente arrivare il primo tram, in una città senza tempeste spaventose, dove la luce non va mai via. Capisco che era un sogno. E so che non lo era. È questa la regola del sogno? La tempesta ruggisce ora dall’interno, da qualche parte tra il cuore e la pancia, e non ho più paura.

Mercedes Viola

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