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Natsume Soseki. Il tessitore di parole.

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Non si può dire che io fossi cresciuta in un ambiente culturalmente florido. Quando incontrai per la prima volta Natsume Soseki, ero poco più di un’adolescente con il desiderio vivo di cercare – e trovare – qualcosa di distante da me e da quello che avevo letto fino a quel momento. Non rientravo nella schiera dei futuri giovani intellettuali, il mio curriculum non conteneva i CCCP o Carmelo Bene, non c’era Bret Easton Ellis né Visconti. Ciò nonostante ero ancora scevra da quel devastante e spasmodico bisogno di nobilitarmi, elevarmi, raggiungere gli altri – quali altri? Non li vedevo nemmeno gli altri – recuperare terreno; per me leggere era un piacere a rilascio lento, un divenire, un’emersione di pezzi di vita altrui di cui avrei potuto beneficiare con la calma e una discrezione personale non soggetta a competizioni, vetrine o esercizi di vanità – solo dieci anni più tardi avrei fatto amicizia con il senso di inferiorità e di inadeguatezza che questo severo e ridicolo microcosmo della cultura riserva a chi non è al passo con la lista dei cento capolavori del ‘900 del New York Times. Ero figlia di un muratore e di una casalinga mezza russa, con una sorella di quattordici anni più grande che mi aveva insegnato tutto sui Beatles e il disegno a carboncino e un fratello di otto anni più grande, da cui avevo imparato a ritoccare la marmitta di una Kawasaki 125 e a rollare sigarette, senza fumarne mai una. Disponevo di una modesta libreria fatta di classici della collana 1000 lire e dei B side delle mirabili carriere di Kafka, Fitzgerald e Svevo che uscivano il sabato come allegati de la Repubblica; la mia era una curiosità per l’indagine emotiva dal vero più che su carta stampata. O almeno lo era stata fin quando non incontrai lui. Avevo da poco finito di leggere Tenera è la notte e avevo bisogno di scendere più in profondità, di andare a cercare segni, simboli, idiomi che mi portassero nel cuore delle cose. Avevo sentito dire da un libraio che i giapponesi erano particolarmente bravi ad affondare nei dettagli dell’emozionalità e, seguendo questo suggerimento, trovai Guanciale d’erba. Sceglierlo fu facile: possedeva la stessa cifra del mio cuore e potevi scoprirlo subito, alla seconda riga dell’incipit:

Se si usa la ragione il carattere s’inasprisce, se si immergono i remi nel sentimento si è travolti. Se s’impone il proprio volere ci si sente a disagio. È comunque difficile vivere nel mondo degli uomini. Quando il malessere d’abitarvi si aggrava, si desidera traslocare in un luogo in cui la vita sia più facile. Quando si intuisce che abitare è arduo, ovunque ci si trasferisca, inizia la poesia, nasce la pittura.

Era un libro perfetto per una ragazza alla ricerca di sé. Lo lessi in pochi giorni sull’onda di un entusiasmante inizio, ma ne rimasi, inaspettatamente, insoddisfatta, quasi delusa. Le promesse di immediatezza del primo capitolo non venivano mantenute nello svolgersi della narrazione e così chiusi quello che al momento appariva ai miei occhi come un dispenser di batuffoli di cotone e lo riposi in libreria. Dieci anni dopo ero una giovane donna, sposata, pronta per la muta, il primo vero cambio di identità. Ero a passeggio per Bologna e lo ritrovai in una libreria nella sua nuova edizione uscita per Neri Pozza. Mi ricordai di lui, del gusto amaro che ancora percepivo in qualche angolo della mia bocca. Lo comprai, lo rilessi con la curiosità che pervadeva ogni azione di quei giorni: la riscoperta, la rivalutazione, la riassegnazione di voti, gusti, giudizi secondo nuovi parametri: quello della sostanza, quello dell’anticitazionismo, quello del valore intrinseco, assoluto. Quello dell’analisi, della ricerca di senso sotto a belle parole, batuffoli, appunto, di cotone, ma intrisi di un nettare prezioso che si rintraccia solo se immergi le mani in quel dispenser e non ti fermi semplicemente a guardarlo. Alla fine, fu amore.

A cinque anni dalla prima uscita per Neri Pozza di Guanciale d’erba esce, nel maggio 2012, E poi; nel mezzo, sempre per Neri Pozza, Il cuore delle cose (Kokoro), Io sono un gatto (Wagahai wa Neko de Aru) e Il signorino (Bocchan). Di seguito cinque dei più significativi estratti di queste perle di quello che viene considerato il più grande romanziere giapponese del Novecento, rappresentato sulle banconote da 1000 Yen al pari di un imperatore o di un politico, che ha dedicato la sua intera vita e produzione a ricercare il perfetto matrimonio tra forma e sostanza in un’aderenza della prima sulla seconda. Uno scrittore che ha passeggiato su cambiamenti politici e storici del suo paese con la leggerezza d’animo di chi sa che alla fine segue il silenzio e che tutto quello che c’è prima è semplicemente vita. Il narratore delle mutazioni, delle involuzioni, dei punti di vista; Soseki ci mostra le possibili strade della mente umana, dell’emozione in quanto processo che dal di dentro influenza l’esterno: con coraggio ed estrema semplicità, per primo ci mostra quali effetti ha un pensiero o un sentimento su tutto quello che c’è intorno e al di fuori della testa di chi lo ha generato. In ogni romanzo un rappresentante di un’umanità diversa, portavoce di un dilemma: il giovane artista, in sospensione tra contemplazione e godimento della realtà; il vecchio maestro malato, tra rimpianto e rassegnazione; il bimbo che cresce tra nostalgia dell’infanzia e disadeguamento verso un presente che lo vuole responsabile e presente a sé stesso; il gatto cantore di bigottismi e frustrazioni; un giovane e decadente dandy che dondola tra morale e voglia di perdizione. Soseki ha raccontato la società giapponese a colpi di silenzi e sospiri, il passaggio da un secolo (diciannovesimo) all’altro (ventesimo) senza retorica o forzature stilistiche, con la naturalezza del giorno dopo giorno, del ritratto dal vero, del cronista, con la maestria di chi con la penna ci fa l’amore, intridendo tutto con evidenti e pertinenti richiami occidentali (visse e studiò a Londra), trattando, con il mezzo della scrittura, tutte le arti come unità espressiva, senza gerarchie, senza precedenze. Ma anche l’arte del saper vivere, intesa come abilità di riuscire a “vedere” senza sforzo, a “sentire” senza affanno, a “divenire” ineludibilmente. L’Arte come dono non cercato, ma ricevuto e accettato fino in fondo, con tutti i pesi e i doveri che richiede; Soseki ci parla dell’artista vecchio stampo, quello che lo era senza ostentazione, senza atteggiarsi, senza vantarsi, perché naturale come essere un dottore, un insegnante o un negoziante. Un mondo, quello di Natsume, che si può apprezzare da adulti, quando qualcosa si è visto e qualche dolore si è già provato, nella quiete e la mitezza di chi vuole e sa accogliere e cogliere il peso delle piccole cose, il loro kokoro.

Da bambino mi capitò di tagliare un suo ramo fronzuto per fabbricarmi un porta-pennelli a rastrelliera. Vi disposi i miei ‘pennelli d’acqua’ da due sen e cinque ri, appoggiati sul tavolo in modo che le bianche punte facessero capolino tra i fiori e le foglie, e rimasi piacevolmente a contemplare il tutto. Quel giorno mi addormentai con il porta-pennelli di cotogno nella mente. Il mattino seguente, appena sveglio, corsi a vedere il tavolino: i fiori erano appassiti, le foglie ingiallite, solo le punte dei pennelli brillavano come il giorno prima. “Com’è possibile”, mi domandai, incapace di dominare la mia perplessità, “che una cosa così bella si sciupi in una sola notte?”           (Guanciale d’erba)

Spesso, quando eravamo insieme, avevo provato un senso di disappunto. Il maestro, forse, se n’era accorto. E proprio per quella mia sottile disillusione non me la sentivo di allontanarmi da lui. Anzi, al contrario, ogni volta che ero agitato dall’amarezza, provavo il desiderio di restargli accanto. Pensavo che, così facendo, prima o poi quanto mi aspettavo sarebbe apparso gratificante davanti ai miei occhi. […] Il comportamento di freddezza o indifferenza che a volte mostrava nei miei confronti non era il tentativo di allontanarmi da lui, ma era il segnale di fermarsi per tutti coloro che lo avvicinavano, perché non ne valeva la pena. Lui, che non accettava l’intimità degli altri, prima di disprezzare il prossimo sembrava disprezzare se stesso. (Il cuore delle cose)

Se vogliamo interpretare il frivolo comportamento del mio padrone nello spirito zen, spiegarlo in un’ottica filosofica, potremmo dire che fa tante smorfie davanti a un specchio solo per riuscire a conoscersi veramente. Ogni studio che gli esseri umani conducono è una ricerca di se stessi. Il cielo e la terra, i monti e i fiumi, la luna e il sole e le costellazioni tutte non sono che modi diversi per designare se stessi. Se si rinuncia all’Io, non si troveranno altre materie di studio. E se l’uomo potesse uscire dalla propria individualità, nello stesso momento il suo Io sparirebbe. L’unico studio possibile è quello di se stessi, non si può studiare un’altra persona. Non è concepibile, anche se c’è chi vorrebbe farlo, e chi vorrebbe essere oggetto di studio da parte di altri. Ecco perché da sempre gli eroi sono diventati tali con le loro sole forze. Se potessimo capire il nostro animo tramite qualcun altro, gli potremmo far mangiare della carne al posto nostro per sapere se è tenera o dura. Tutte le attività cui ci dedichiamo quotidianamente – […]- sono soltanto mezzi per aprire il nostro spirito all’illuminazione senza far ricorso ad altri. Tuttavia il nostro Io non è presente nella legge che ci spiegano, nella via che ci illustrano, nei cumuli di libri mangiati dai topi. Se vi è presente, è solo uno spettro. È vero però che in certi casi uno spettro è superiore a un essere senza anima, e non è detto che inseguendo un’ombra non si possa incontrare la sostanza. Perché la maggior parte delle ombre non se ne distacca. Se il gingillarsi con lo specchio del mio padrone ha questo senso, allora penso che lui sia degno di stima. Che valga molto più di quegli studiosi che si vantano di aver letto Epitteto. (Io sono un gatto)

“Oggi, per la prima volta, faccio ritorno alla naturalezza di un tempo”, si disse. E dopo aver pronunciato queste parole, venne pervaso da una sensazione di pace che non provava da molto. Perché, si chiese, non era riuscito a tornare prima a quello stato? Perché fin dall’inizio aveva fatto resistenza alla natura? Nella pioggia e nel profumo dei gigli, nel passato risorto, intravedeva una vita di pace semplice e pura. Una vita priva di egoismo, sia in apparenza sia in stanza. Una vita in cui non esistevano profitto o perdita, e nemmeno la moralità che opprimeva l’Io. Libera come le nuvole, naturale come l’acqua. Felice in ogni suo aspetto. Di conseguenza, bella in assoluto. (E poi)

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