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Paz

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A quei tempi «fumetto» era quasi una parolaccia. I graphic novel non li avevano ancora inventati, non dalle nostre parti perlomeno. Ciò nonostante era proprio questo che volevamo fare: disegnare storie con nuvole parlanti. Le anatomie dei supereroi erano più sublimi di Michelangelo, dicevamo. Alla prof di storia dell’arte prendeva il coccolone quando ci sentiva parlare così. Noi ce ne fregavamo. Ci sentivamo molto underground. Spesso ci prendevamo un giorno di vacanza non autorizzata per rintanarci in qualche anfratto dove farci di canne e parlare di quel futuro remoto in cui, una volta terminati gli studi, saremmo diventati disegnatori di fumetti. Gli esami di maturità ci parevano così lontani che faticavamo a credere sarebbero mai arrivati. Non avevamo idea di come passano gli anni. «Credevamo di avere un sacco di tempo. Ora sappiamo che non è così… Non c’è un millennio da perdere!» Lo ha detto Vincenzo Sparagna, l’uomo che insieme a un manipolo di meravigliosa gentaccia creò Frigidaire. Se Rolling Stone è la bibbia del rock’n’roll style, Frigidaire è stato il vangelo del trash, la roba più post-punk in vendita nelle edicole all’inizio degli anni Ottanta. Dio solo sa cosa potevi trovare in quella rivista: giornalismo d’assalto, racconti di Burroughs, interviste ai marchettari romani, stimati critici d’arte in déshabiller, foto di persone morte nel corso di pratiche autoerotiche. La redazione si trovava a Trastevere, in vicolo della Penitenza, praticamente dietro il nostro liceo. Ci passavamo davanti ogni giorno. Era un posto minuscolo con una porta a vetri celeste. Certe volte ci appostavamo nei pressi nella speranza di vedere uscire i nostri eroi. Già, perché tra le tante altre cose, c’erano pure fumetti su quella rivista. Di un genere molto particolare, ovvio. Un genere cattivo e fantasioso. Mai visto prima. Tra quei disegnatori che volevamo emulare, allora noti come la banda del Cannibale, più di tutti adoravamo uno che si firmava con nomi diversi. Andrenza, Spaz, Apaz, ma soprattutto Paz. Andrea Pazienza. Lui era il più grande. «La pazienza ha un limite, Pazienza no» diceva di sé. E infatti era esorbitante, incontinente, esplosivo. «E ringraziate che ci sono io, che sono una moltitudine» diceva ancora. E infatti lo ringraziavamo. Perché sapeva disegnare non in uno ma in cento, mille e centomila modi diversi. Perché faceva parlare i suoi personaggi come parlano le persone reali. Perché aveva trasformato in arte una cosa che dalle nostre parti pareva condannata soltanto a Tex e Topolino.

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Ai fumetti c’era arrivato passando per l’arte seria. Faceva quadri di denuncia, prima; all’epoca se non eri impegnato politicamente non eri nessuno. Scoprì che a comprare la sua arte di denuncia erano farmacisti che poi se l’appendevano in camera. «Il fatto che il quadro continuasse a pulsare in quell’ambiente mi sembrava, oltre che una contraddizione, un limite enorme». Così pensò che fosse il caso di darsi ai fumetti. Aveva cominciato a Bologna, ci si era trasferito per frequentare il Dams. Erano gli anni Settanta e in quella medievale cittadella universitaria i giovani seguivano le mode del momento: essere di estrema sinistra, ingaggiare tenzoni con le forze dell’ordine, ribaltare cassonetti, lanciare sampietrini e fare un sacco di cose creative. Oltre che scopare e drogarsi, ovviamente. Per un paio di anni, Paz frequentò le fantastiche bolge guardandosi attorno, «profondamente ghettizzato nel meridiolume bolognese» perché pur essendo nato nella Marche, era pugliese nel profondo, attaccato al suo paesino d’origine, San Severo, e al Gargano, «terra bella e cattiva come il mare». Poi, un bel giorno del 1977, si presenta nella redazione di Linus con una falsa lettera di presentazione di Umberto Eco. Sfodera le tavole di una storia a fumetti, Le straordinarie avventure di Pentotal, la rappresentazione più fedele e dissacrante di Bologna in fermento, di un’intera generazione votata alla ribellione, all’essere sempre e comunque contro. L’inizio di una leggenda, Paz divenne una bandiera del Movimento, anche se lui, politicamente parlando, era poco portato alle posizioni ideologiche. Annusava quel che c’era nell’aria — slang, dialetti, tic e modi di fare. Quindi trasfigurava tutto in vignette dove autobiografia e visionarietà erano una cosa sola. Vennero molte altre storie, molte invenzioni disegnate, personaggi come Pompeo e il mitico, perfidissimo Zanardi che col suo naso a becco divenne il simbolo di una nuova era nata dalle ceneri dell’immaginazione al potere, i disincantati anni dell’edonismo.

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Qualcuno disse: Paz sta al fumetto come un cemento sta a un grattacielo. Ormai era chiaro a tutti, o quasi, il suo genio. Fellini gli fece disegnare il poster della Città delle Donne, Benigni gli dedicò Il piccolo diavolo. Lui si ritirò in Toscana, a Montepulciano. Finché in un giorno di inizio estate, il 16 giugno di un quarto di secolo fa, lo trovarono senza vita. Overdose oppure eroina tagliata male. Dissero che era scomparso il Sid Vicious del fumetto italiano. Il vizio lo aveva preso a Bologna, in quegli anni caldi che ora sembrano tanto lontani; il vizio di una generazione che si faceva ascoltando Devo e Residents, convinta che autodistruggersi fosse in. Lui doveva averlo presagito, perché una volta aveva detto al padre: «Se mi dovesse succedere qualcosa, voglio solo un po’ di terra a San Severo, e un albero sopra…» Adesso è lì

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