Impari a camminare. Muovi i primi passi, cadi, ti rialzi, e poi sai già come si fa. Un passo alla volta, uno davanti all’altro. E non c’è più nessuna sorpresa nella normalità. Imparare a scrivere, invece, è tutta un’altra questione. Certo, puoi ordinare le parole in bella o in pessima grafia lasciando pensieri che hanno poca presa, riuscire nei compiti a scuola oppure nell’essenziale che devi a te stesso. Saper scrivere, al contrario, significa abbandonarsi alla paura, all’attesa che tutto diventi vita e menzogna. Occorrono esercizio, lavoro quotidiano, impegno costante, virtù che solo il talento riesce ad accendere. Lo riconosci subito il sentimento vero per la scrittura, e non quello annacquato dalla miserabile vanagloria, che ti ossessiona fino a tormentarti le ore da spendere nella quiete. La concentrazione, accompagnata allo studio e alla lettura, sarà la sopravvivenza a cui ti aggrappi per non cedere all’inganno delle pagine vuote. Ecco, leggere non potrebbe mai essere abbastanza per un autore, specie per uno che vorrebbe diventarlo. Sapere di dover scrivere e di imparare a farlo è già un buon punto di partenza. Un primo passo affinché sia seguito da altri, e non ha importanza se procedi in modo claudicante oppure spedito. La scrittura è fatta di pietre da rompere per ottenere schegge di emozioni. Si mescola al tormento che è figlio delle cancellature, delle ombre, dell’ispirazione bastarda che arriva solo quando vuole concedersi, la stessa che ti toglie le idee e poi te le restituisce nello stile più conveniente. Sentirai il dolore del momento sbagliato anche quando sei pronto a prendere posto tra inchiostro e rinunce. Più scrivi e più è un cominciare dapprincipio. Un punto a capo quasi fosse l’inizio di tutto. Ogni rigo lo vivi come il primo, scatta l’annullamento di ogni cosa e l’origine del nuovo in cui tutto è diverso e nulla sarà scontato. La scrittura è vocazione. Se non senti la ferita dell’amore per le parole, che possono abbandonarti in qualsiasi istante lasciandoti perso, confuso, lascia stare. Fai altro nella vita. Scrivere non è un atto di gratitudine verso i potenziali lettori. E’ lo strumento di difesa per essere liberi. E’ la via per allontanarsi dalla banalità che seduce molti sedicenti autori nello strappo tra la presunzione di esserlo senza averne merito e l’umiltà di sentire l’inquietudine del verso perfetto che pochi scrittori, quelli davvero bravi, vivono come se fosse un rischio da correre per stare bene.
In La ragazza di Savannah di Romana Petri per Mondadori (pp 267) senti addosso la passione che una ragazza americana nutre per la scrittura. Una ragazza che, quando esce di casa, si incanta davanti alla galline e che non smette mai di avere Cristo come sublime interlocutore. Quando arriva alla scrittura la riconosce come un dono divino. La ragazza è una delle più grandi scrittrici del Novecento, Flannery O’Connor. Ironica, autocritica, solitaria, riservata, pungente, indipendente, tanto devota e tanto rabbiosa, introversa, diversa, Flannery voleva diventare una scrittrice famosa. Bruciava di dolore e di sacrificio nel realizzare ciò a cui ambiva di più. Ha imparato a leggere per imparare a scrivere come si deve: con senso critico, con spirito libero e con costante studio, solo così si diventa qualcuno. E’ diventata una scrittrice impavida, ossessionata dalla frase perfetta e dal cibo per compensare l’amore negato perché nessun uomo era disposto ad amare una storpia. Flannery soffriva della stessa malattia del padre, il Lupus, a malapena si reggeva in piedi, ma ha combattuto la sofferenza a colpi di sferzanti parole e senza mai lamentarsi. Di lei, Romana Petri, traccia una biografia che in realtà è letteratura pura. E’ molto più della storia di una grande scrittrice, è la febbre che ti fa rifiutare gli avanzi della vita affinché tu possa raddrizzare la schiena e prenderti cio a che vuoi, se hai la capacità e il coraggio.
Il romanzo è sfolgorante. La storia ha la passione e l’acume della seducente volontà di credere nel proprio talento. Quando c’è non può andare sprecato. La narrazione è colma di ardore. Rappresenta la radice di come leggere nell’anima votata a qualcosa di grande, di bello, di impegnativo e di doloroso. La scrittura è sacrificio, sentimento, fuga e abbandono. Lo stile di Romana Petri entra nella penombra della sofferenza con una sanguigna forza attrattiva.
Lucia Accoto