Tranquillità Assoluta è un libro di 10 racconti pubblicato da Pidgin edizioni per la Collana Ruggine nel 2025. Racconti ambientali e musicoidi, parole che scrivono la quotidianità del reale traversando la realtà e la disinformano in transiti e insetti. Miracolo della musica e dell’ambiente visionato e visionario. La pratica di un habitat da osservare senza retorica ambientalistica e paesana è cura del ritmo che l’indiavolato autotune del capitalismo ha sviscerato: «si è trattato di trasformare gli insetti in dispositivi pseudo-allegorici e l’autobiografia e autocartografia in forme cave». L’epoca ha mutato l’irreale: nel senosenso di un delirio globalizzato, le crisalidi, le palle di merda, le visioni allucinate del sangue: nelle pagine puoi incontrare una sintassi dell’emoticon e una ricerca della parola giusta, dello slang – come un canone di fusionecon dell’ars nova trecentesca di Mechaut – allo stesso livello percettivo ma in gradi differenti e «forse scrivere è anche guardare in faccia questa confusione, dargli irresponsabilmente spazio». La soggettività desiderante di Perozzi genera un costruito e controllato caos, sicché può sembrarti pop quel che diventa sperimentazione alla Berio, o alla Stockhausen, immagoparole che aprono oscene in controtendenza alla tradizione del personaggio benfatto dove «i personaggi sono banalmente personaggi, cioè funzioni ipostatizzate». Parlare di Weird a proposito della scrittura di Perozzi è quasi un limite che omologa e fa mercato un certo indipendente, mentre in questi racconti il desidenarrante si fa moltitudine di controsguardo. La scrittura musicale e desiderante di Tranquillità Assoluta traduce elementi di reale corporeo animalumano nella trama della (ir)realtà capitalistica: soggettiva musicante non pianificata «e visto che la musica in questione appartiene soprattutto all’universo noise-indie-punk-industrial il metodo è il rumore». Seppur esista un editing che rimodelli grumi, è sempre un editing desiderante che lascia la desideranza della scrittura libera di «produrre nuove energie, che sono nuove e sono energie proprio a partire da una rottura e una frequentazione intelligente del non prevedibile». Il valore di questi racconti sta nell’intercettare l’azione anarchica e rizomatica di un processo che svela piani paralleli e caosmici, azione che di per sé è azione di desideranti opposti pure abitando il sistema che fa prodotti e previsioni: «una scrittura come esplorazione della complessità e contraddizione»: questo ci fa lettori, lettrici, attraverso un auscultante desiderio di…
Gianluca Garrapa
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Qual è stata la genesi del tuo libro e perché hai desiderato scriverlo?
Sulla genesi posso rispondere più facilmente. Ho cominciato a pensare Tranquillità assoluta nel 2019, volevo fare una raccolta di racconti e mi girava in testa l’idea di usare in qualche modo l’universo weird e ultra-eterogeneo degli insetti. Di certo non mi avrebbe soddisfatto, però, la soluzione favolistica di far agire solo gli insetti, drammatizzare un mondo di insetti; e così, visto che parallelamente a questo libro ho lavorato sulla costruzione di una soggettività non stereotipata in poesia e sulla fabbricazione di un pensiero paesano alternativo all’urbanocentrismo e all’ideologia dei borghi, campi in cui ancora mi spendo, ho deciso di frullare tutto insieme. Allora si è trattato di trasformare gli insetti in dispositivi pseudo-allegorici e l’autobiografia e autocartografia in forme cave in cui far risuonare quello spavento che è sì del paese e della provincia ma non – spero – alla maniera feticistica che spesso si vede. Forse questa è anche la risposta alla seconda domanda, se per desiderio intendiamo qualcosa di simile all’intenzione: il desiderio-intenzione di costruire una forma abitabile e surreale insieme, vera e falsa insieme; mi piace (anche in poesia) questo cortocircuito, lo trovo stimolante. Se invece per desiderio intendiamo qualcosa di più viscerale e meno razionalizzabile, be’, forse coincide con la scrittura in sé e non con una sua forma, con la tensione a costruire questo livello di senso intermedio, inafferrabile e precario sperando che sposti qualcosa. Mi viene da dire così.
Quando scrivi, godi?
Non lo so. La cosa più vicina al godimento che mi viene in mente, in relazione allo scrivere, riguarda quella sensazione insieme di curiosità e spericolatezza che si prova a condurre la macchina delle parole senza sapere precisamente dove la si sta portando, e vedere che però inspiegabilmente un castello si forma, e che quindi in realtà stanno agendo, allo stesso tempo, il desiderio di costruire e quello di smontare, la deduzione e l’imprevisto. Ho spesso ragionato in termini di compresenza e conflittualità tra queste due dimensioni. Forse perché un senso di paradosso lo attribuisco anche al concetto di godimento preso in generale. Da nevrotico – cioè da cittadino dell’Occidente – vivo una completa confusione tra desiderio e malattia. Forse scrivere è anche guardare in faccia questa confusione, dargli irresponsabilmente spazio.
Un estratto dal libro che è risultato più difficile o particolarmente importante: perché? Lo puoi trascrivere qui?
Non credo ci sia un passaggio che mi ha creato particolari difficoltà artigianali. Intendo più del resto. Ovviamente il lavoro di continua revisione e revisione è stancante, se non stremante; ma vale tutto sommato per l’intero libro. A pensarci, questa domanda apre un discorso sullo stile. E cioè sulla difficoltà di produrre uno stile. Allo stadio attuale la scrittura narrativa per me è in qualche modo contro lo stile, nel senso che punto alla rastremazione e all’aderenza nervosa alla cinetica della scena. Quello che è difficile, per contro, è costruire soggettività (“personaggi” è una parola già viziata) credibili, e per credibili intendo indossabili nella loro capacità contraddittoria. Una fetta enorme della narrativa contemporanea mi annoia. Perché i personaggi sono banalmente personaggi, cioè funzioni ipostatizzate, e perché la scrittura è usata per raccontarli, cioè immergerli in un humus linguistico edificante, o almeno spiegante i fatti. Teatro scritto e scrittura per tirare le fila del suo significato. Ecco, difficile è agire in alternativa a questo.
(En passant, comunque, qualche estratto da leggere lo segnalo, ad esempio qui e qui).
Se non fosse scrittura, cosa potrebbe essere il tuo libro?
Risposta telefonata, mi rendo conto, ma: musica. Il libro ne è pieno, dal titolo cccpiano ai Big Black in esergo alle molte band citate nel libro. Confesso, mi sono abbandonato spesso a vezzi musicofili (spero comunque sempre ben cuciti nella carne della narrazione, e non del tutto out of the blue). Ma ho detto altrove che la musica è anche un metodo. E visto che la musica in questione appartiene soprattutto all’universo noise-indie-punk-industrial il metodo è il rumore.
Che rapporto hai con la censura?
Vista l’ampiezza della domanda, in sintesi mi viene da rispondere che la scrittura è di per sé azione contro la censura. Non solo censura imposta dall’alto, censura sociologica, ma direi, più profondamente, censura psicologica, autocensura. Se il linguaggio è qualcosa che si introietta, a essere introiettate sono anche le prassi del linguaggio, cioè le sue calcificazioni, automatismi, falsi spontaneismi, preconfezionamenti eccetera. Sono forme di autocensura inconscia, che sono destinate ad avere la meglio se non si lavora anche sullo smontaggio del livello più internato di queste imposizioni che si può raggiungere. Certo farlo integralmente è impossibile (si rischia l’afasia, penso). Ma scrivere mi pare sia soprattutto deviare e sottoporre all’elettroshock queste costruzioni, così da produrre nuove energie, che sono nuove e sono energie proprio a partire da una rottura e una frequentazione intelligente del non prevedibile.
Per te scrivere è un mestiere o un modo di contestare lo status quo?
Mestiere direi di no, visto che sono costretto a procacciarmi uno stipendio altrove. A meno che non intendiamo mestiere come pratica artigianale – in quel caso sì. Benché la parola “artigianato” si porti dietro automaticamente una certa idea passatista e folclorica di arte, tocco con mano una dimensione di riscrittura e meditazione che ha a che fare col mestiere inteso nel suo secondo significato. E questo non mi sembra in opposizione al “contestare”, visto che è proprio una certa modalità di produzione e consumo del linguaggio a connotare lo status quo sociale. Riscrivere, meditare, spostare fa parte già di una forma di contestazione. Metto però l’asterisco al fatto che l’azione si fa poi a livello strutturale, al limite. Per questo non mi sento vicina neanche un’idea di scrittura che “contesti” (denunci, additi, segnali allarmisticamente) una situazione – per quanto controfirmabile – di sofferenza o minorità. Come si è capito dalle altre risposte sono per una scrittura come esplorazione della complessità e contraddizione. Evidentemente la contraddizione ultima, quella del sistema produttivo, entra in questo raggio, ma deve farlo – almeno per la letteratura che io ritengo significativa, su tutti e tre i piani della lingua, della politica e dell’esistenza – come status, appunto, terreno, spavento, ambiguità, mai come referente lineare. Miro, con i mezzi che posso, a tagliare la linea facile tra lingua e referente.
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Antonio Francesco Perozzi, Tranquillità Assoluta, Pidgin edizioni, Collana Ruggine, 2025.