Roma, settembre 1958 – Redazione del Messaggero
Il maresciallo Sciascia – o meglio, lo scrittore che si aggirava per la città con l’aria di chi sapeva già più di quanto dicesse – spense il visore dei microfilm con un gesto secco. Una sottile coltre di fumo si allungava verso il soffitto, come una riflessione ancora incompiuta.
«È incredibile», disse a mezza voce, rivolto a nessuno in particolare.
Il giovane redattore che lo accompagnava – un certo Bellotti, ventotto anni e ancora l’odore d’inchiostro sulla pelle – sollevò lo sguardo dal bloc-notes.
«Dice a me, dottor Sciascia?»
«Guardi qua.» Gli porse il taccuino dove due colonne opposte si fronteggiavano come imputati in tribunale.
«Da una parte, il romanzo di Gadda. Dall’altra, il caso Fenaroli. È come se la realtà avesse voluto completare la letteratura.»
Bellotti lesse. «Via Merulana, furto dai Menegazzi, donna matura sgozzata. Poi… via Monaci, gioielli spariti, strangolamento. Ma… il libro è uscito prima, giusto?»
Sciascia annuì. «Nel ’57. E il delitto Martirano è dell’anno dopo. Non trova curioso che un’opera che rifiuta una soluzione trovi la propria risposta nella cronaca?»
Il redattore aggrottò la fronte. «Vuol dire che Fenaroli è il colpevole anche nel romanzo?»
Sciascia rise, ma con amarezza. «No, ragazzo. Voglio dire che forse è la realtà a prendere in prestito la penna di uno scrittore. O forse… che Gadda aveva capito qualcosa che ancora ci sfugge.»
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Flashback storico:
Roma, 11 settembre 1958. Nel quartiere Salario, al civico 16 di via Monaci, una domestica apre la porta dell’appartamento Martirano. Trova il corpo della signora riverso sul pavimento del soggiorno, il volto cianotico, una profonda lividezza attorno al collo. Nessun segno di effrazione, ma manca un cofanetto di gioielli e alcune banconote. Gli investigatori della Mobile annotano tutto. Intanto a Milano, Giovanni Fenaroli, geometra e imprenditore, viene raggiunto dalla notizia. La sua reazione è composta. Troppo composta.
Ritorno in redazione:
«La letteratura che anticipa la realtà, maresciallo?» chiese Bellotti.
«O forse la realtà che imita la letteratura. Ma il punto non è chi ha copiato chi… è perché.»
Sciascia socchiuse gli occhi. Il pensiero lo stava portando lontano, forse in Sicilia, forse in un altro romanzo che non aveva ancora scritto.
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Capitolo 2 – Il commissario e lo scrittore
Questura di Roma, Sezione Omicidi – 15 settembre 1958
L’aria nella stanza odorava di caffè bruciato, carta velina e tabacco Forte. Il commissario Gaetano Dell’Aquila non era uno che parlava volentieri con gli scrittori, ma Leonardo
Sciascia non era uno scrittore qualunque. Lo aspettava seduto dietro una scrivania traboccante di fascicoli. Quando lo vide entrare, si alzò appena, per educazione.
«Dottor Sciascia. Un piacere. Ma mi dica, cos’è che la incuriosisce così tanto di un delitto tanto… ordinario?»
«Nulla è ordinario, commissario, se ci si guarda dentro abbastanza a lungo.»
Sciascia si sedette, tirò fuori il taccuino con le due colonne.
«Ho bisogno di capire quanto c’è di casuale, e quanto di inevitabile.»
Il commissario lo guardò un attimo, poi scosse la testa. «Gadda, eh? L’ho letto, sì. Troppo complicato per me. Tutti quei pensieri aggrovigliati, tutte quelle frasi che si rincorrono…»
«La mente umana è così, commissario. E Gadda ha cercato di raccontarla senza anestetizzarla.»
Dell’Aquila sbuffò. «Allora vuole dirmi che il geometra Fenaroli è don Ciccio Ingravallo?»
Sciascia sorrise. «No. Ma mi dica… davvero crede che la Martirano sia stata uccisa solo per rapina?»
Il commissario accese una Muratti, aspirò lentamente. «C’è una cosa che non torna. Se voleva soldi, chi ha ucciso Maria ha lasciato un milione nell’armadio del marito. Ma se voleva altro… allora cosa?»
Sciascia aprì il suo taccuino e lesse:
«Nel Pasticciaccio, Liliana Balducci era una donna desiderata. Troppo per essere lasciata vivere. Anche Maria Martirano era bella, distinta, senza figli. Il marito? In crisi. Debiti, società fallite, mutui. Il perfetto movente borghese: uccidere per sopravvivere.»
Il commissario lo guardò più a lungo. «Ma questa non è giustizia. È letteratura.»
«A volte coincidono», rispose Sciascia. «Altre volte, la giustizia è solo una storia raccontata male.»
Un lungo silenzio seguì. Fu rotto solo dal crepitare della carta sotto la tazza di caffè.
«Mi dica la verità, dottor Sciascia. Lei vuole scriverci un libro, vero?»
«Forse», rispose. «O forse voglio solo trovare il finale che Gadda ha lasciato in sospeso.»
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Capitolo 3 – Neve e bugie a Milano
Milano, 20 settembre 1958
Il treno notturno aveva tagliato l’Italia da sud a nord come una lama lenta. Quando Sciascia scese alla stazione Centrale, il cielo era basso, il respiro del mattino odorava di smog e caldarroste. Aveva appuntamento con un uomo al Caffè Jamaica, in Brera. Regno di artisti e giornalisti stanchi.
Il cronista si chiamava Gianni Carli. La faccia scavata, gli occhi come lenti sfuocate. Lavorava al Corriere d’Informazione e aveva seguito il caso Fenaroli fin da subito.
«Lei è lo scrittore siciliano, giusto?» gli disse stringendogli la mano con dita ingiallite.
«Quello che dice che i misteri d’Italia non si risolvono, si archiviano.»
«Non lo dico io. Lo dice la storia di questo paese», rispose Sciascia sedendosi.
Carli ordinò un Campari, alle dieci del mattino. «Allora, che le serve sapere?»
Sciascia aprì il taccuino. «Non i fatti ufficiali. Quelli li trovo ovunque. Mi servono le crepe. Le voci. Le stranezze che un cronista riconosce subito.»
Carli sbuffò, poi si fece serio. «Le dirò questo: Fenaroli è uno di quegli uomini che non fanno rumore. Niente colpi di testa, niente amanti, niente scandali. Ma la sua impresa era un castello di carte. E Maria Martirano era la carta migliore. La moglie ricca, discreta, utile.»
«Utile a cosa?» chiese Sciascia.
«A tenere in piedi le apparenze. E i debiti. Sa, uno come Fenaroli non uccide per passione. Uccide perché è rimasto senza opzioni.»
Sciascia annuì. «E chi ha eseguito? Non crede che un uomo del genere si sporchi le mani da solo.»
Carli abbassò la voce. «C’è un nome che gira. Il portiere d’albergo, tal Ruotolo. Un poveraccio. Dicono che abbia preso centomila lire. Dicono che Fenaroli lo abbia convinto. Ma non lo dico io, eh. Io sono solo un cronista.»
«E la polizia?»
«Zitta. Per ora. Ma c’è odore di processo.»
Sciascia chiuse il taccuino. Si alzò in silenzio.
«Scriverà qualcosa?»
«Non lo so ancora. Forse un’indagine. Forse un romanzo. Ma questa storia… sa di verità. Troppa verità per essere solo cronaca.»
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Capitolo 4 – Il disegno nella nebbia
Roma, 28 settembre 1958 – Studio di Sciascia
La pioggia tamburellava contro i vetri come dita impazienti. Sciascia sedeva alla scrivania, una lampada verde accesa e tre mozziconi di sigaretta nel posacenere. Aveva davanti tutte le sue carte: articoli, appunti, estratti del Pasticciaccio, verbali. E adesso, finalmente, cercava il disegno.
Parlò a mezza voce, come se raccontasse a qualcuno che non c’era.
«Il furto di gioielli in casa Menegazzi… nel romanzo, è l’inizio. Nella realtà, è l’alibi. Una messinscena per giustificare l’assenza di Fenaroli. O per far sembrare l’omicidio una rapina.»
Sottolineò la parola sceneggiatura sul taccuino. Poi scrisse: Delitto premeditato. Semplice nei mezzi, sofisticato nel movente.
«Fenaroli non era un assassino per istinto. Era un uomo in trappola. Finanze in rovina, onore in pericolo, nessuna via d’uscita. Maria non era solo la moglie. Era la banca, l’apparenza, l’argine. Ma gli argini si rompono.»
Si alzò, camminò fino alla finestra.
«Il modus operandi è quello del borghese disperato: si affida a un complice, paga il silenzio con la promessa di una vita migliore. Ruotolo esegue. Strangola. Pulisce. E prende il cofanetto di gioielli. Tanto basta per il depistaggio.»
Fece una pausa. Un pensiero gli tornò alla mente: “Una coincidenza non è mai solo una coincidenza.”
«E Gadda?»
Tornò alla scrivania, aprì il libro. Lesse una riga a voce alta:
> “La causa vera, profonda, quella che veramente determinava l’azione delittuosa, era irrappresentabile.”
Sciascia sorrise.
«Eccola, la chiave. Il delitto non è irrisolto perché mancano gli indizi, ma perché manca la volontà di vederli per quello che sono. Gadda ha lasciato la verità tra le righe. Io… l’ho trovata tra i giornali.»
Chiuse il taccuino. Spense la lampada.
Non scriverà un romanzo. Non ancora. Ma ha compreso una cosa: la letteratura non imita la vita. A volte la anticipa. E altre volte, la completa.
Nota dell’autore
Il racconto che avete letto è una Malacodafiction, un intreccio narrativo che fonde realtà storica, cronaca giudiziaria e finzione letteraria.
Tutti gli eventi e i personaggi legati al caso Fenaroli-Martirano sono fatti di cronaca realmente accaduti tra il 1958 e il 1961. Il delitto, la figura di Giovanni Fenaroli, la vittima Maria Martirano e il presunto esecutore Giuseppe Ruotolo sono documentati e verificabili attraverso articoli di giornale, atti giudiziari e numerose inchieste dell’epoca.
L’intera costruzione narrativa prende spunto da due opere fondamentali della letteratura italiana del secondo Novecento:
Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (Garzanti, 1957): romanzo ambientato a Roma negli anni Trenta, incentrato su un duplice mistero – un furto e un omicidio – che restano senza soluzione. È considerato da Leonardo Sciascia «il più assoluto giallo mai scritto», proprio perché la sua forza è nell’incompiutezza e nella complessità della verità.
Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta (Einaudi, 1961): ispirato a un reale delitto mafioso, è uno dei primi romanzi italiani a trattare la criminalità organizzata come sistema di potere. In Sciascia, la verità giudiziaria è spesso ostacolata dal potere, e la letteratura resta l’unico luogo dove la giustizia può essere almeno pensata.
Il parallelo tra il romanzo di Gadda e il caso Fenaroli nasce da un’intuizione che Sciascia stesso esprime in vari saggi e interviste: la realtà italiana, spesso, completa o imita la letteratura, e non il contrario.
Questa narrazione si muove su quel crinale.
Francesca Mezzadri