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Antonello Saiz racconta “Al centro del mondo” di Alessio Torino

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“E allora il nonno si girò sulla sedia, verso la collina, e lo vide che si avvicinava alla quercia. Damiano sollevò lo sguardo ai rami dove foglie nuove e minuscole facevano un rumore d’acqua. Era il rumore che lo aveva impietrito mentre ci passava accanto, l’acqua più vicina era giù nel fosso dall’altra parte della collina, neanche un vento forte l’avrebbe mai portato fin lì.”

Al centro del mondo,​ Alessio Torino, Mondadori

Un venerdì sera di fine novembre a presentare, sulla pagina Facebook di Book Advisor, Al centro del mondo, l’ultimo romanzo del marchigiano Alessio Torino. Il quinto, uscito il 15 settembre per Mondadori. Arriva dopo Undici decimi, fortunato esordio per Italic nel 2010 (con cui ha vinto il premio “Bagutta Opera Prima”), e Tetano (2011), Urbino, Nebraska (2013) e Tina (2016), tutti editi da minimum fax.

Abbiamo iniziato la chiacchierata parlando di identificabilità stilistica, cioè quel qualcosa che permette al lettore di riconoscere immediatamente un autore di un romanzo, prima ancora di leggere il suo nome in copertina. Poi ci siano soffermati sulla scarsa riconoscibilità di troppi, tanti autori contemporanei. Una voce personale e una penna riconoscibilissima, invece, quella di Alessio Torino,​ che con la sua prosa ha saputo sempre tratteggiare quel momento delicato e tumultuoso che è l’adolescenza.

La prospettiva di chi avanza nella vita e si lascia alla spalle l’infanzia, è un tema fortemente attrattivo per lo scrittore che, ancora una volta, con questo suo ultimo romanzo, ben descrive la meraviglia ma soprattutto l’orrore di quell’età.

Il centro del mondo questa volta è posto sulle colline umbro-marchigiane, a Villa La Croce, minuscolo abitato soprannominato​ malignamente dagli abitanti dei borghi vicini “Villa dei matti”. In questo luogo dimenticato dal mondo si svolge la storia di Damiano Bacciardi, protagonista diciassettenne che​ vive con la nonna Adele, il nonno partigiano col suo silenzio, seduto su una sedia sotto un ciliego, e lo Zio Vince detto “Gorilla”, giocatore d’azzardo e fanatico di Trump. A seguire, la vicina Anna con le sue oche, Mario Baldeschi e i suoi maiali,​ il pastore sardo Chessa con i lavoranti macedoni.

Tutta la vita dei Bacciardi ruota intorno alla produzione del miele di famiglia, “la manna”, dal potere miracoloso perché capace di rendere fertili le donne sterili, e intorno alla quercia dove il padre di Damiamo, Pietro, si è impiccato, tornata a far foglie dopo dieci anni.

La storia si apre con una voce narrante che, come una telecamera, finisce per focalizzarsi sulle ampie falcate di Damiano per i campi, diretto con una accetta in mano verso quella quercia che nasconde drammi indicibili. L’autore sceglie in questo modo di raccontare una storia dalla prospettiva di un ragazzo fuori margine, un alienato che porta addosso i segni del dolore per la perdita del padre, dell’abbandono della madre Miruna e del giudizio pesante degli altri. Che lo ritengono un matto, tanto che persino a scuola viene chiamato Damiano “Psyco” Bacciardi.

Capiamo già dalle prime scene che siano in uno spazio prossimo al crollo psicologico, con questo adolescente scosso da crisi violente e da una forma ansiosa di inquietudine. Con questo malessere addosso inizia una sua forma di resistenza per difendere la terra, la sua felicità, la quiete della piccola famiglia, le rovine di un mondo rurale che si va via via sgretolando.

Al centro del mondo di Damiano resta sempre e solo la natura e la sua sacralità. La sacralità del santuario di Santa Maria delle stelle e del tabernacolo/magazzino dove le api, di cui lui sente il brusio, depositano il miele prodigioso; la sacralità di quelle pietre, di quella terra, di quegli alberi che raccontano storie oscure; la sacralità del volo delle rondini e del sibilare del vento.

Con quel suo sentire le cose in maniera diversa, inizia una faticosa lotta per conservare tutto così com’è e nel frattempo legge, non a caso, il romanzo postumo di Melville​, Billy Budd,​ in una copia annotata dal padre. A dar pace e sollievo alla sua ansia, ci pensa Nonna Adele con le sue carezze. Ripetutamente lo chiama “Cuore di Nonna”. Questa donna salda, che nonostante le tragedie subite, continua a sfornare ciambelle calde, a preparare frittelle zuccherate e a conservare liquori al maraschino nelle dispense oltre a pulire e riempire barattoli di miele, che stringe con una forza decisa per poi, con estrema cura, attaccarci le etichette sopra. La cura e le radici che sono tutto il mondo del ragazzo.

A quella cura e dolcezza fa da contraltare la brutalità dello Zio Vince, che trama per vendere la proprietà a gente che viene da lontano. Un uomo che ha un rapporto involuto con le donne, che nel novembre dell’anno precedente ha esultato per l’elezione di Trump e che ai galli dà il nome degli Stati americani dove si applica la pena di morte.​ Nonostante i modi grossolani, però, è fortemente legato a quel nipote e al senso di famiglia.​ Ma Damiano, che vede la Madonna e parla e prega continuamente con Maria, riconosce pure il Diavolo e il Male.

Il Demonio ai suoi occhi sono gli altri, tutti quelli che vengono da fuori e portano la paura. La paura di perdere quel che si ha: la natura, la nonna, la felicità. Che sia il cliente numero uno, che immagina con la faccia demoniaca di Trump, o che siano gli olandesi del finale, per Damiano incarnano, tutti, il Diavolo che vuole distruggere la sua serenità, la sua quiete.

Capisce di essere nel giusto della sua rivoluzione quando nella sua vita irrompe Teo Van Gogh,​ un pittore di strada conosciuto al sabato, giorno in cui con lo zio Vince va al mercato di Fematre a vendere il miele. Questo altro​ ragazzo pieno di ferite e col suo pappagallo Montezuma, come un profeta indica all’amico la via da seguire. Damiano si sente così come investito dal dover difendere a tutti i costi Villa la Croce e la memoria della sua sgangherata famiglia.

In questa storia sospesa in un tempo cristallizzato, quando Nonna Adele muore e la prospettiva di vendere si fa sempre più concreta, Damiano è come istigato a obbedire ai suoi impulsi e, sempre più convinto che sbarazzarsi della proprietà sia un tradimento, comincia a premeditare azioni estreme.

Tante sono le citazioni nascoste disseminate lungo il corso della narrazione. I richiami a elementi fiabeschi e a leggende, gli echi al mondo appenninico di Silvio D’Arzo, così come a Paolo Volponi e a Federigo Tozzi o all’America di William Faulkner, Cormac McCarthy e Flannery O’Connor.​

L’andamento della scrittura è in grado di svelare la storia un passo alla volta, in un percorso iniziale non semplice per il lettore. Ma è proprio la ricerca del vocabolo giusto, della sintassi precisa a dare ritmo e velocità al testo e a rendere credibile in profondità ogni singolo personaggio. Persino i silenzi di Damiano quando si sottrae ai discorsi degli altri, alle domande e ai rimproveri, sono resi visibili al lettore grazie all’andatura della scrittura di Alessio Torino.

In questi mesi, in tanti hanno recensito questo romanzo, parlandone in maniera calorosa. Alla fine della chiacchierata con Alessio, abbiamo però convenuto che la sintesi di un post dello scrittore Angelo Ferracuti racchiudeva più di tutti il senso di questa piccola, grande perla della letteratura contemporanea: “Un libro poetico e politico sul mondo globalizzato e la cancellazione delle radici”.

Antonello Saiz

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