Personaggio che vince non si cambia.
Almeno non subito e almeno non fino a che abbia esaurito tutte le sue potenzialità espressive.
È quanto fa Cinzia Dezi in Che lingua parlano? (pagg. 227, € 20,00), da oggi in libreria per Booktribu. Cioè, torna sul luogo del delitto ovvero nel mondo della scuola, precisamente delle superiori, riprendendo il personaggio della professoressa Aurelia Alessandrini. Sì, quel concentrato di nevrosi e rivendicazioni che il lettore incontrava in Qui non siamo al liceo classico, uscito nel 2023 sempre per Booktribu.
Questa volta la professoressa si muove tra due scuole superiori della Sconfinata Pianura Paranoica (leggi Pianura Padana), una è il Liceo-sperduto-in-mezzo-alle-paludi, l’altra il Liceo-retto-dal-Gineceo-Gentile.
È qui che incontra (forse meglio dire, si scontra) con la fauna umana degli studenti non proprio volenterosi né propensi allo studio della filosofia (e dell’italiano), come delle altre materie.
Accadeva nel romanzo precedente, accade anche qui che la prof. Alessandrini cerchi di far appassionare i ragazzi alla sua materia, al potere evocativo del linguaggio.
«Questo libro è la mia personale versione dell’Elogio di Franti» afferma l’autrice. «È il racconto di quante volte la prof. Alessandrini non ce l’ha fatta con i Franti che ha incontrato, di com’è stato impossibile fargli fare quel passaggio bellissimo e necessario che accade quando ti metti a frequentare le parole. Se non le conosci, all’inizio le parole ti respingono – e ai Franti che ha incontrato lei, le parole sono apparse quasi come una offesa personale, ma se cominci a stare con loro ogni giorno, con le parole intendo, allo sforzo cognitivo si aggiungerà uno straordinario piacere. E se non vi fidate di me, fidatevi almeno di Aristotele, che lo scrive nella Poetica.»
Il romanzo, con la consueta attitudine punk (un pelo più ammorbidita), affronta il tema senza entrare nel versante elegiaco dei buoni sentimenti, o in quello del per aspera ad astra.
Resta legato in modo molto stretto al personaggio, alle modalità con cui prova a riuscire nel suo intento di far appassionare gli allievi allo studio, e alla sua disfatta.
Perché «nel 99 per cento dei casi non c’è riuscita», a farli appassionare, le è andata male. I Franti hanno vinto. Il libro perciò risulta essere «la testimonianza dei suoi ripetuti fallimenti».
Non prendete però Che lingua parlano? come un romanzo pessimista, ma come un indice accusatorio puntato sulla istituzione Scuola, soprattutto contro chi di essa fa carne di porco.
Eppure importa poco se molti danno una mano a rendere quasi disperante la situazione. E importa anche poco se spesso l’Alessandrini (e con lei chissà quanti prof.) abbia la netta percezione di “tirare dei semi sul cemento armato”. Cinzia Dezi, in queste pagine, rimanda al pensiero di Domenico Starnone, quello che attraversa i suoi libri sulla scuola: l’importante è fare, fare, fare per e con i ragazzi, senza attendere risultati qui e ora.
I semi attecchiranno quando vorranno, se vorranno. Sempre inaspettatamente.
Sergio Rotino
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DICIASSETTE

Nella classe di Quelli-che-ridevano-per-qualsiasi-cosa, c’era lo studente che, alla prima lezione, quando l’Alessandrini gli aveva ritirato i cellulari per iniziare a lavorare, le aveva detto: «Prof, ma adesso io non so più cosa fare!» «Potresti ascoltare me, per esempio» gli aveva risposto Aurelia, qualche lezione prima di introdurre il metodo della classe capovolta anche lì, dato che la vecchia lezione frontale con loro era proprio impossibile da attuare, a causa del tasso di rumore che producevano e che l’Alessandrini non riusciva in nessun modo a governare. Lo Studente-che-non-sapeva-cosa-fare-senza-il-cellulare stava attraversando un momento di crisi. Si trovava nella tipica fase in cui niente sembra più avere senso (fase che, per alcuni, non passa mai, vedi Aurelia). E infatti una volta, senza che c’entrasse niente, a bruciapelo le aveva chiesto: «Prof, lei crede in Dio?» «No» aveva risposto secca l’Alessandrini, le cui convinzioni, tra mezzogiorno e l’una, sembravano sempre lampanti e andavano scemando a partire dalle sei del pomeriggio, ma questo gli studenti non avrebbero dovuto saperlo MAI. «Ah, per fortuna» aveva risposto lo Studente-che-non-sapeva-cosa-fare-senza il-cellulare. Aurelia provava un’intima simpatia per lui, ma ciò aveva fatto sì che lo Studente-che-non-sapeva-cosa-fare-senza-il-cellulare, se con gli altri colleghi dormiva, nelle ore dell’Alessandrini si prendeva un dito, un braccio e una gamba fino alla caviglia. Insomma, bisognava porre un argine a tutto ciò, anche a costo di risultare antipatica, mi aveva scritto Aurelia su UozzAp. E questo perché, quel giorno in cui lui le aveva chiesto il permesso di buttare un pezzo di carta e poi si era avvicinato al cestino, l’Alessandrini intanto era andata avanti a dire una cosa alla classe e poi si era accorta che lui non se ne andava più dal cestino, allora si era girata per vedere cosa stesse facendo: stava sminuzzando il foglietto di carta in frammenti infinitesimali per metterci più tempo possibile, invece che tornare a sedersi. Quella volta lì, l’Alessandrini aveva fatto il grave errore di ridere e per quello lui si era allargato: passava nel quadro della porta mentre lei era nelle altre classi e le mandava baci con la mano (che stavano a sottintendere: domani non mi interroga, vero?) e cose così – anche se quella cosa di salutarla sbracciandosi, mentre lei era in un’altra classe, ormai la facevano un po’ tutti, sulla scia di quelli di quinta. Che la situazione con lo Studente-che-non-sapeva-cosa-fare-senza-il-cellulare stesse andando fuori controllo era risultato chiaro da quella volta in cui Aurelia stava firmando il registro al PC, dando le spalle ad alcuni regaz seduti laterali, e quello ne aveva approfittato per infilarsi in testa un sacco della spazzatura coprendosi tutto fino alle ginocchia ed era rimasto così, per diversi minuti, 134 seduto al suo banco, roba che quando l’Alessandrini si era girata e l’aveva visto, si era messa a urlare: «Ma se ti soffochiiiiiii» e poi gli aveva messo una nota. Lui si era offeso a morte e aveva protestato: «Prof, io pensavo che lei avesse un po’ di senso dell’umorismo, non che mi mettesse una nota» e poi era rimasto offeso per diversi minuti (circa una decina).
DICIANNOVE

Il mercoledì era quel giorno della settimana in cui l’Alessandrini vedeva in una volta sola TUTTE le sue classi di Sportivi una dopo l’altra, BAM BAM BAM. Il mercoledì era anche quel giorno in cui Aurelia perdeva progressivamente la pazienza con il passare delle ore. Quel mercoledì, per primi aveva visto Quelli-che-ridono-per-qualsiasi-cosa, perché c’era stato un cambio di orario. Era entrata bella tranquilla e rilassata ed era riuscita a non spazientirsi mai, anche perché quella mattina lì c’era soprattutto da prendersi cura dello Studente-che-non-sapeva-cosa-fare-senza il-cellulare, che, da quando lei era entrata, stava accasciato sul banco. Questa era una cosa che l’Alessandrini non aveva mai visto in nessun’altra scuola. Lì c’erano almeno due studenti che facevano così e a lei era una cosa che faceva stare davvero male. Magari era solo andato a letto tardi, ma al suo cuore-da libro-Cuore faceva male. Perciò era andata lì e gli aveva chiesto: «Cos’hai fatto? Va tutto bene?» Lui aveva tirato su la testa e a quel punto era diventato abbastanza chiaro cosa avesse fatto, visto che aveva gli occhi rossi iniettati di sangue. «Vuoi andare a lavarti la faccia?», ma lui aveva scosso di nuovo la testa. Per un nanosecondo l’Alessandrini si era distratta e lo Studente-che-non sapeva-cosa-fare-senza-il-cellulare si era accasciato di nuovo. Allora lei gli aveva detto: «Sai che c’era un grande mimo francese, Étienne Decroux, secondo cui la postura era una cosa importantissima! Se stiamo con la colonna vertebrale bella dritta, apprendiamo in un modo del tutto diverso rispetto a quando stiamo stravaccati sul banco!» Non era nemmeno sicura che fosse stato Étienne Decroux a dirlo, o lui o un altro grande mimo francese, ma non era questo il punto. Per un po’ sembrava aver funzionato: lo Studente-che-non sapeva-cosa-fare-senza-il-cellulare aveva iniziato a stare dritto, però si copriva la faccia con le mani. Poi alla fine era cominciato il lavoro di gruppo, lui si era girato dietro verso le ragazze e, con le ragazze, si era ripreso e aveva anche scritto sul quaderno. Dopo, Aurelia era stata due ore con gli Sportivi di quinta che dovevano fare una verifica scritta di storia. Gli Sportivi di quinta, con lei, non stavano zitti manco durante la verifica. Frizzi, lazzi, domandine a raffica, «Proooof, può venire un attimo…» E insomma il silenzio era cosa impossibile: o uno si concentrava così, oppure eri spacciato. A un certo punto la Studentessa-che faceva-sollevamento-pesi aveva alzato il banco e l’aveva lasciato ricadere a terra, producendo un boato simile a un terremoto. Dato il disorientamento generale, lei, candida, aveva aggiunto, con la sua r moscia: «Cevcavo di favli stave zitti, pvof».

Vista la tensione crescente, Aurelia aveva passato il resto dell’ora a far «SH SH SH SH SH SH» a un ritmo frenetico e a dire: 138 «Se non state zitti, vi ritiro il compito!» «Lei ci minaccia sempre, prof» aveva detto lo Sportivo-Occhioceruleo. «Io minaccio perché voi non vi sapete regolare, se vi sapeste regolare, non sarei costretta a minacciare!» E insomma l’Alessandrini era uscita di lì un filino stressata. Proprio il giorno precedente, Aurelia, insieme a tutti i colleghi, aveva dovuto fare un corso di aggiornamento di due ore in cui una simpatica psicologa gli aveva spiegato che non bisognava urlare in faccia agli studenti, perché il COME è importante quanto il CHE COSA si dice per ciò che riguarda la comunicazione tra i parlanti. Peccato che all’ultima ora l’Alessandrini, che durante la mattinata aveva accumulato stress in modalità pentola-a-pressione, avesse dovuto presentarsi nella classe dei Figli degli Unni, che, ritornati dal cinema, avevano riacquisito la loro capacità esplosiva. Lì Aurelia si era deformata come l’urlo di Munch, ma con la potenza vocale dell’Incredibile Hulk quando diventa verde e, mentre urlava con la vena del collo pronta a esplodere coi suoi Ventisette Figli degli Unni, pensava che avrebbe tanto voluto avere la psicologa sottomano per chiuderla lì dentro con loro e buttare via la chiave per almeno un mese o due.