Andrea Inglese, Storie di un secolo ulteriore, DeriveApprodi, 2024.
Storie di un secolo ulteriore è un libro di Andrea Inglese, uscito per DeriveApprodi nel 2024, di brevi prose che imitano il racconto tradizionale deformandolo nel modo surreale di Storie microquotidiane, atomi, e in questi atomi si svela l’universo mondo e immondo della ruota quotidiana, letteratura quantistica e diagonale «che proprio in quanto tale si sottrae ai temi d’attualità di certa narrativa “ufficiale”.» Il piacere di leggere è complementare al godimento di chi ha scritto riuscendo a cogliere lo sguardomodo e vederloincanalarlo nel «corpo linguistico» capace di rifletterlo, in diagonale sempre, come attraverso un prisma. La scrittura di Andrea Inglese, in particolare in queste Storie, coglie il movimento antinarcisistico e controtendenza che mette il lettore e la lettrice magari davanti a uno specchio dove però osserva sé stesso e sé stessa di spalle, ricorda quel noto dipinto di Magritte, La riproduzione vietata, come in Storia con messaggero: «In testi come questo mi preme in modo particolare produrre una sorta di disorientamento immaginativo nel lettore, ma in cui risuonino una quantità di echi.» Si coglie una differenza tra questo e altri tipi di scrittura in prosa proprio per uno degli aspetti fondamentali del libro: la dimensione ludica in cui l’autore gioca, diverte e diverge: «Vorrei che il mio libro fosse un gioco, che il lettore amasse giocare.» In questo gioco, però, c’è qualcosa di splendidoescludente e cioè il fatto che sperimentare, giocare con il materiale linguistico, divergere lo sguardo verso la microscopia delle infinitesime possibilità creative, cozza, si scontra, con la volontà, che non è più desiderio creativo, e la pretesa «di considerare che la letteratura funzioni a una sola dimensione, e che si debba decidere se l’essenza delle letteratura sia quella di rivolgersi al più gran numero oppure no.» La cifra umoristica di Storie di un secolo ulteriore serve a dislocare il rapporto dei margini, riannettere allo sguardo anche i senza voce, direbbe Francis Ponge, che della pratica di speriferizzazione degli sguardi è stato un maestro, e che in modi diversi svolazza tra le righe del sentiero scrittorio di Inglese che a volte sembra pure uno scrittore “normale” ma «queste posizioni di “normalità” servono a misurare la distanza nei riguardi di tutto quanto vive alla periferia di essa» sicché la desideranza della scrittura che conduce al cuore della cosa, internesterna, è tutta qui, viva e rizomatica…
Qual è stata la genesi del tuo libro e perché hai desiderato scriverlo?
Dicevo in una discussione con Antonio Syxty e Massimiliano Manganelli che, parlare della genesi di un libro, significa sempre fare riferimento a situazioni torbide, a fatti “poco puliti”, che non si ha tanta voglia di divulgare. L’inizio di un libro è sempre una po’ una scommessa spaccona, una pretesa esagerata, una proiezione ingigantita delle proprie capacità. Poi si scende con i piedi per terra, si entra nel terreno accidentato della pagina scritta e da scrivere. Comunque come già in Il rumore è il messaggio ([Diaforia 2023), anche se quest’ultimo era un libro di poesia, Storie di un secolo ulteriore è nato con l’intenzione di scrivere “all’altezza dei tempi”. Con questa formula intendo dire una cosa precisa, che non ha niente a che vedere con la pretesa di cogliere, incarnare o esprimere lo “spirito dei tempi”. Lo “spirito dei tempi”, come ci ripetono i critici in voga sulle pagine degli inserti culturali, è quanto decreterebbe l’importanza e soprattutto un certo successo commerciale di un libro. Se lo leggono in tanti, allora lo Zeitgeist è stato acchiappato. Per me il discorso è ben diverso, non solo perché non posso sventolare successi di vendite, ma anche perché, in ogni caso, convivo con grande rabbia con lo spirito del tempo. Scrivere all’altezza dei tempi, per quanto mi riguarda, significa scrivere integrando nel proprio mondo di finzione un grado di violenza che è tipico del mondo in cui vivo, ma non solo della violenza che si vede in TV o che si segue sui giornali (guerre, repressioni, terrorismo, annegamenti di fuggiaschi, ecc.), ma quella infraordinaria, la piccola che già circola nelle vite più normali e apparentemente più protette. La prosa e il racconto breve fungono da lenti d’ingrandimento, deformano per far apparire quello che ad occhio nudo non si vede. E in ogni caso, il partito preso di questa serie di “storie” brevi è quello di elaborare uno sguardo decentrato, che proprio in quanto tale si sottrae ai temi d’attualità di certa narrativa “ufficiale”.
Gian Luca Garrapa
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Quando scrivi, godi?
Godo quando un’immagine, un’idea o un concetto, trovano il proprio drappello lessicale e sintattico per organizzarsi, per venire allo scoperto, per acquisire un corpo linguistico convincente e attraente.
Un estratto dal libro che è risultato più difficile o particolarmente importante: perché? Lo puoi trascrivere qui?
Ecco una pagine tratta da uno degli ultimi testi, intitolato Storia con messaggero.
“Tu quindi sei Gentliakov? Passo al tu se permetti. Ti credevo più vecchio, più russo, più feroce. Che bello poterti dare del tu, capire chi veramente sei, qualcuno che si avvicina alle persone, che non teme la prossimità, che sa stringere le mani altrui, e nonostante questo chi vuoi che si possa fidare di te? Tu non sei solo Petja Gentliakov. Tu sei anche il clan, la storia dei servizi, i vostri metodi d’investigazione, le tavole della legge, delle vostre leggi, tu sei anche l’armatura e i cavalli, le strade infangate e i soffitti delle celle, tu sei anche le dita senza unghie, le ciocche di capelli sparse per terra. Sei la neve. Sei il pane di segale. Sei la carcassa del pollo che hai offerto come onorificenza a Liza, ai bambini del lago, alle famiglie della steppa.”
Attendiamo che vengano le oche delle regioni alte. Abbiamo così a lungo ignorato i loro segnali, ma ora sospendiamo i nostri affari. Sospendiamo tutti gli affari umani, che non siano strettamente necessari alla sopravvivenza. Così gli studi sono chiusi. I magazzini vuoti. Le autostrade deserte. Centelliniamo quello che resta nelle dispense. Vogliamo davvero capire cosa possono dirci le oche delle regioni alte. Andranno studiate. Si dovrà scoprire come volano, di quali erbe si cibano, cosa temono al di sopra di ogni altra cosa.
“È come se ti conoscessi da anni caro Andrea, lo sai? Non che importino le schede che ho, gli appunti, la documentazione che si può facilmente trovare in rete. È un lavoro che ha fatto la mia immaginazione, venendo qua. So che la tua vita è incompleta. So delle amputazioni, di quello che ti manca, di quello che non hai mai avuto. Per questo ti ho soprattutto immaginato. Ho avuto il coraggio d’inventarti. E sono convinto, ora che t’incontro e guardo negli occhi, che ho fatto bene. Tu credevi che i fiori fossero dolci. Che le piante fossero dolci. Che i richiami degli adulti fossero dolci. E così l’erba, vero? Non pensavi certo, che scavando un po’ lì sotto saltassero fuori ossa di palestinesi, ossa di contadini nigeriani, e i teschi lucenti di tutti gli altri, di tutti i fuggiaschi? Non pensavi di camminare su una terra fecondata da fuggiaschi. Ma io con te voglio parlare solo di mandorle e gigli. Abbiamo liberato un pomeriggio intero. Solo le mandorle e i gigli, per noi, oggi, devono contare.”
Il cortile era male illuminato. Il vecchio brasiliano portava avanti e indietro dei grossi tubi flosci. Qualcuno avrebbe dovuto strisciarci dentro, secondo il programma di sala. Ma anche il programma di sala, come l’orchestra, le scenografie di compensato, le macchine mobili e scoppiettanti, anche tutto questo era una semplice diceria. Dopo il brasiliano venne il direttore, che volle spiegare tutto dall’inizio. Ma nessuno aveva intenzione di stare ad ascoltarlo. Non solo nessuno credeva all’esistenza di un vero spettacolo, ma nessuno credeva neppure più all’esistenza del cortile.
In testi come questo mi preme in modo particolare produrre una sorta di disorientamento immaginativo nel lettore, ma in cui risuonino una quantità di echi. Si tratta di un dialogo tra un forestiero e un personaggio che ha lo stesso nome dell’autore. Si crea così anche un inevitabile eco di “autofinzione”. Il lettore insomma è confrontato con la sua memoria culturale e letteraria, e trova così una quantità di piste possibili per situare una serie di enunciati di dubbia natura. Certo, il lettore sta leggendo una “storia”, ma che tipo di storia? Una finzione narrativa con dentro dei significati relativi al mondo odierno, alla morale? O si tratta piuttosto di una storia palesemente irrealistica, che si ascolta però come certe favole, perché in esse ritroviamo personaggi o situazioni tante volte narrate, e che ci sono rimaste in memoria? Oppure, il narratore-autore sta svelando qualcosa di sé? O, ancora, sta formulando la sua visione del mondo? E i dettagli secondari che entrano nel testo costituiscono degli “effetti di realtà”, ci persuadono, insomma, che il discorso abbia un possibile referente, oppure ci mostrano l’impossibilità di acchiapparlo il referente? Ovviamente, il lettore deve essere disposto a seguire la voce narrante in queste acque torbide, e deve prestarsi a essere sollecitato da più echi, da più indicazioni, senza che il testo gli garantisca alla fine un sicuro guadagno, una comprensione più certa della realtà.
Se non fosse scrittura, cosa potrebbe essere il tuo libro?
Un gioco sociale, durante il quale la gente sospende le proprie azioni quotidiane e funzionali alle mansioni sociali e familiari, per fare gesti e dire cose che hanno in sé il proprio scopo e valore. Vorrei che il mio libro fosse un gioco, che il lettore amasse giocare.
Che rapporto hai con la censura?
Me lo hai già chiesto o sbaglio? (Sorriso.) E devo averti parlato di “autocensura estetica”, ossia di correzioni che si fanno, per non spaventare il lettore, per non essere troppo “difficile”, “esagerato”, “disturbante”. Ho ascoltato alla radio la testimonianza di uno scrittore (francese) che si vantava di aver preso un’agente per promuovere il suo libro presso gente del tutto estranea al mondo letterario, ma molto affiatata con quello dello spettacolo. E come primo esempio di questo nuovo approccio promozionale ricordava una sua comparsa in un quiz televisivo in prima serata molto popolare tra gli spettatori francesi. “Nessuno scrittore è mai stato a una trasmissione come quella. La mia convinzione è che bisogna andare a cercare i lettori al di fuori della cerchia di chi legge di già”. Questo è un discorso che io capisco e che mi sembra del tutto difendibile. Ma non può valere per tutti quelli che scrivono. L’idea di scrivere per “il più gran numero” implica concedersi certe possibilità e vietarsene altre sul piano della scrittura, dei suoi effetti, del suo modo di coinvolgere il lettore. Io ad esempio voglio sperimentare ed esplorare certe possibilità della forma breve, in un libro come Storie di un secolo ulteriore, e so che, comunque sia, non potrei, né pretendo farlo, raggiungere “il più gran numero”. Ma in questo discorso non c’entra nulla lo snobismo o l’elitismo. Il vero problema è la pretesa di considerare che la letteratura funzioni a una sola dimensione, e che si debba decidere se l’essenza delle letteratura sia quella di rivolgersi al più gran numero oppure no.
Per te scrivere è un mestiere o un modo di contestare lo status quo?
Io riformulerei la domanda. Oggi siamo in un’epoca di reazione, di offensiva reazionaria sul piano della politica nazionale e di incremento del caos sul piano internazionale. Di fronte a contesti come quelli attuali il termine “status quo” è ambiguo. Io direi che un libro come Storie di un secolo ulteriore andrebbe letto nella prospettiva di una tradizione, che è quella della letteratura umoristica, come la intendeva Giancarlo Mazzacurati: se lo status quo significa considerare un ordine della realtà, come qualcosa di assodato, e la narrazione, come una modalità di restituzione, che un soggetto (narratore-personaggio) ne fa, distillando delle verità e dei significati, allora la mia scrittura è contro lo status quo, è contro l’idea di una “realtà” definita e compiuta che lo scrittore, grazie ai suoi talenti stilistici o alla sua sensibilità, sarebbe in grado di sondare. Quello che possiamo sondare è l’inadeguatezza di certe immagini di realtà con elementi direttamente o indirettamente presi dalla nostra esperienza. Quello che noi definiamo come realtà è costituita da una serie di immagini “ideologiche”, che vanno innanzitutto smontate o comunque esibite nella loro opacità, di mistificazioni inevitabili. Le mie “storie”, ad esempio, rifiutano l’idea di essere integrate in una “Storia” collettiva, ma non perché non credo che una storia collettiva possa esistere. Essa può esistere, a patto di cominciare a raccogliere tutto quanto si trova ai margini, ossia le vite marginali, degli esclusi, degli espulsi, degli invisibili. Non tutti i personaggi che popolano Storie di un secolo ulteriore vengono dal margine, alcuni occupano delle posizioni “centrali” o semplicemente “ordinarie”. Ma queste posizioni di “normalità” servono a misurare la distanza nei riguardi di tutto quanto vive alla periferia di essa.