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La tigre e l’usignolo. Intervista a Mauro Garofalo

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Questa settimana, per Le Tre Domande del Libraio su Satisfiction, incontriamo Mauro Garofalo per farci raccontare il libro, da poco uscito per Nottetempo, «La tigre e l’usignolo». Mauro Garofalo, specializzato in reportage ambientali, collabora con Il Sole 24 Ore-Nòva, La Stampa Viaggi e Tuttoscienze. Tra i suoi libri pubblicati ricordiamo “L’ultima foresta” (Aboca-Il Bosco degli Scrittori, 2023), Premio Demetra per la narrativa ambientale 2023, e Il mago dell’aria (Mondadori, 2024), finalista al Premio Fondazione Giancarlo Siani 2025.

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Mauro, io partirei dal titolo, “La tigre e l’usignolo”, preso in prestito da una poesia di Cristina Campo, per farci raccontare l’evento che ha innescato la scintilla di questa storia, vale a dire un dolore personale legato alla perdita di un amico. Storia che poi diventa una profonda e intima riflessione sulle tracce che si lasciano del nostro passaggio su questa terra.

La raccolta di poesie di Cristina Campo, La tigre assenza, ha in sé due elementi crudeli e al tempo stesso necessari: la tigre che sbrana, la depressione, ma più semplicemente il mal di vivere, il malessere i muscoli rotti dal quotidiano, i pensieri, gli sbagli, la solitudine, i crucci nei confronti del lavoro, la guerra, il mondo. Nel caso di Alberto, l’elemento di partenza, la perdita secca di un amico, inattesa come sempre accade, la vita è inattesa, la consapevolezza della sua morte ha estinto una parte del mondo che avevo conosciuto, fino a quel momento. La morte di qualcuno è la fine di un territorio comune, l’estinzione di un linguaggio, ha detto qualcuno, di una cifra, di un modo di stare al mondo. La morte è assenza ma, contestualmente, “libera” i ricordi di quella persona, ce li fa vedere al netto del suo corpo, che non c’è semplicemente più. Il secondo elemento, l’usignolo, è la poesia dei giorni, fatti di niente, un mandarino cinese che cresce sul davanzale di un appartamento, una formica salvata dall’essere schiacciata da inconsapevoli bambini di un asilo, i batteri e i virus che imperversano nell’aria attorno a noi, la forma di vita più numerosa sulla Terra, assolutamente indifferenti agli effetti potenzialmente letali sulla nostra specie. Quanta vita c’è attorno a noi, senza di noi, il mondo andrà avanti lo stesso. In questo, sapere che siamo frutto del caso, di coincidenze, e conoscere però il lemma che ci tiene in vita, sapere che siamo noi stessi parte di un codice più grande – tutte le vite di tutti gli esseri viventi sulla Terra – in parte ci scagiona, in parte ci ridimensiona, entrambi mi paiono atti necessari.

Il libro racconta la vicenda di Alberto, che un giorno qualsiasi di primavera, nella scena iniziale del libro, si toglie la vita. Alberto è un personaggio complesso e pieno di sfumature e ci viene raccontato da diversi personaggi che lo incontrano in qualche tappa del suo cammino. Vogliamo entrare nel dettaglio di questo racconto attraverso gli occhi, le ricostruzioni parziali e il punto di vista dei vari personaggi che incrociamo nella lettura?

Il parco nel suo Essere vegetale e animale, le sue rocce e i piccoli invisibili animaletti che lo attraversano, la runner che lo trova appeso a “quel” ramo, il poliziotto che tenta di aiutare la ragazza ad andarsene, senza sottostare alla violenza della burocrazia, dopo la macabra scoperta, l’usignolo voce della coscienza e della Natura indifferente ed eterna (il tempo come sub specie aeternitatis di Spinoza: la lunga catena che ci lega, tutti, al fiume semantico del Tempo che è scorso, e che continua a scorrere). E poi la sorella, nel suo doppio inesistente, la sorella che io stesso non ho avuto, figlio unico, di genitori che perdono un figlio, il dolore innecessario di perdere il futuro, chi ci dovrebbe sopravvivere, appunto, un figlio. Il ferramenta che ha, evidentemente, venduto la corda, che diventerà cappio, ma lui non poteva saperlo, a quel ragazzo che è entrato chissà in quale giorno di quale settimana per sancire una scelta già presa che avrebbe avverato in un futuro prossimo. Il sole, le figurine dei calciatori, l’estate, i nostri ricordi da bambine|i. Tutte le occasioni perse, la traccia di ogni istante perduto. Sono questi i vettori principali, con un orizzonte appena accennato su quel che potremmo definire “al di là” preso in prestito dal Libro Tibetano dei morti e dall’avventura che, si racconta in quel libro, debbano affrontare tutte le anime prima di trovare la, agognata, pace. Parola quantomai attuale.

Considerando l’argomento, la tua scrittura sembra avere una vena molto intima e personale. Ci porti nell’officina di lavorazione del libro e ci spieghi come hai lavorato e hai bilanciato il tuo stile narrativo con la necessità di coinvolgere emotivamente il lettore ma anche di tributare un risarcimento alla memoria di persona cara ?

Tutto è partito da un disegno (che ti allego, se vuoi puoi usarlo): è la prima idea, il nucleo da cui è partito tutto, sapevo di avere una linea più spessa – Alberto – e poi, come fogli di un libro aperto, le altre vite. Perché credo che in un’epoca come questa, in cui si tenda all’io, più importante è sentire l’altro, gli altri, cercare di fare un passaggio di focus dall’ego riferimento, il selfie della propria vita, le proprie emozioni, e fare un passo indietro, laterale, per fare spazio a chi ci è accanto, attorno. Gli altri, insomma, sono più importanti di noi stessi. Lo so, è una posizione discutibile, ma per motivi personali e legati alla scrittura dare un valore, illustrare con un disegno una storia, è il tentativo di capirla, se le diamo una forma stiamo cercando di inserirla in un contesto, più ampio dell’io perché la forma implica una relazione con il contesto. Nel caso de La tigre e l’usignolo volevo che le altre vite raccontassero l’assenza, definendola però, quasi di più, che se l’avesse raccontata la voce del protagonista. Perché noi chi siamo in fondo se non gli occhi di chi ci guarda? Allora, si alza il velo, ciò che potremmo dire si approssima, si avvicina, di più alla (nostra) verità. In fondo, a chi siamo.

Buona Lettura di “La Tigre e l’usignolo” di Mauro Garofalo.

Antonello Saiz

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