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Alessandro Averna Chinnici e Riccardo Tessarini anteprima. L’Italia di Rocco Chinnici. Storie di un giudice rivoluzionario e gentile

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Un monito profondo: “Parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai.”

Nel centenario della nascita di Rocco Chinnici, magistrato simbolo della lotta alla mafia, arriva in libreria un’opera che ne celebra la vita, gli ideali e il lascito indelebile: L’Italia di Rocco Chinnici. Storie di un giudice rivoluzionario e gentile di Alessandro Averna Chinnici e Riccardo Tessarini (Minerva Edizioni 2025, pp. 244, € 20,00).

Alessandro Averna Chinnici è Capitano dei Carabinieri e nipote di Rocco Chinnici. Riccardo Tessarini è attivo nell’associazionismo e nella promozione della legalità.

L’Italia di Rocco Chinnici ci guida alla scoperta dell’uomo che ha cambiato per sempre il volto della giustizia italiana. Inventore del pool antimafia, Chinnici intuì l’importanza di seguire i flussi di denaro per combattere la criminalità organizzata e fu tra i primi a portare il messaggio della legalità nelle scuole, ispirando generazioni.

L’invenzione dei pool antimafia fu fondamentale per far sì che le informazioni sulle indagini di mafia venissero condivise da più magistrati così che l’inchiesta non andasse perduta se il magistrato che la seguiva veniva ucciso.

Le intuizioni di Chinnici, la sua gentilezza e la sua visione rivoluzionaria continuano a vivere grazie a questo ritratto appassionato.

Il libro, attraverso testimonianze inedite di familiari, colleghi e rappresentanti della società civile, ricostruisce il lato umano e professionale di un uomo straordinario. Alessandro Averna Chinnici, nato otto anni dopo l’attentato che uccise il nonno, racconta come il suo esempio abbia plasmato non solo la sua vita, ma anche quella di un’intera nazione.

Dalle acute interviste del nipote emerge con chiarezza l’importanza della figura di Rocco Chinnici, un grande innovatore nella lotta alla mafia che comprendendone il valore aveva scelto come collaboratori i giudici Falcone e Borsellino.

Un’opera vibrante, per non dimenticare, con un invito alla riflessione e all’azione, rivolto soprattutto ai giovani, affinché il sacrificio di uomini come Rocco Chinnici non sia vano. Anche perché il fenomeno mafioso oggi agisce nel silenzio ma non può affatto definirsi sconfitto.

Solo così il testimone del giudice rivoluzionario e gentile potrà passare nelle nostre mani.

Carlo Tortarolo

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Giovanni Chinnici

Figlio e presidente della Fondazione Rocco Chinnici1

La memoria e la necessità di tramandarla

Quando nel 2003 venne costituita la Fondazione, erano già passati vent’anni dalla terribile strage in cui era stato ucciso mio padre insieme agli uomini della scorta, il maresciallo Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta e il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi. Al tempo lui era una figura per “addetti ai lavori”. Pochi conoscevano la forza rivoluzionaria del suo lavoro di magistrato o sapevano che, senza di lui, probabilmente non sarebbero arrivati Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Forse non ci sarebbero state le loro stragi. Forse i suoi due seguaci oggi sarebbero ancora vivi. Già, perché nei nove anni che separano la sua drammatica morte da quelle altrettanto terribili dei suoi colleghi e discepoli, è cambiata la città e, in parte, anche il Paese. E se ciò è stato possibile, è stato anche grazie al suo impegno sociale che, a un certo punto della sua vita e della sua carriera, lo portò fuori dalle possenti mura del Palazzo di Giustizia di Palermo. In anticipo rispetto a tutti gli altri, aveva capito che soltanto con un intervento complessivo dello Stato – non solo quindi poliziesco e giudiziario – si sarebbe potuta sconfiggere la mafia.

«Senza una coscienza nuova, – diceva – noi magistrati, da soli, non ce la faremo mai.»

Andava nelle scuole, nelle università, presso associazioni, circoli culturali e ogni altro luogo in cui potesse spiegare, soprattutto ai giovani, la pericolosità della mafia come associazione criminale: capace di condizionare profondamente le dinamiche sociali e democratiche; la pericolosità della sua droga, elemento di profonda turbativa della crescita individuale e collettiva delle giovani generazioni. A partire dalla fine del 1979, cioè dal momento in cui divenne capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, rivoluzionò il modo di condurre le indagini giudiziarie e di istruire i processi penali, inventando letteralmente strumenti e metodi tuttora alla base delle metodologie giudiziarie italiane ed europee, osservate a loro volta con interesse da altri Paesi extraeuropei. Mi riferisco alle indagini finanziarie, alla specializzazione dei magistrati, al coordinamento della Polizia Giudiziaria, all’ideazione del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso: tutte invenzioni di Rocco Chinnici. Soprattutto è stata grande l’intuizione del metodo di lavoro in pool, allora del tutto innovativo e, per certi versi, contrario non soltanto alle liturgie processuali dell’epoca, ma anche alla visione individuale del lavoro del giudice istruttore. Fu l’innovazione più formidabile e vincente verso una mafia strapotente ed eccezionalmente violenta che aveva iniziato a colpire il cuore dello Stato. Forse mio padre s’ispirò al pensiero di Edmund Burke: «Quando i malvagi si uniscono, i buoni devono associarsi. Altrimenti cadranno uno a uno». Più volte gli ho sentito ripetere questa frase mentre parlava con i colleghi in una Palermo dove erano già stati uccisi diversi giudici: Scaglione, Terranova, Costa. «Così, quando ammazzeranno uno di noi, non avranno ucciso il processo, perché questo continuerà nelle mani degli altri», era la sua traduzione più drammatica e pragmatica.

[…]

Estratto da “L’Italia di Rocco Chinnici” di Alessandro Averna Chinnici e Riccardo Tessarini

Riproduzione riservata

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1  www.fondazionechinnici.it

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