Leggere questo romanzo è un obbligo. Lo scrivo da lettore e da critico letterario. Da lettore l’ho divorato, da critico letterario ad ogni pagina ho pensato “questo è il romanzo che avrei voluto scrivere io se non fossi io”. Da lettore mi sono immaginato in metropolitana la sera alle 18 al rientro sentire vociare ed essere lì concentrato sul mio libro. Non ho mai lavorato fuori casa, ho preso la metropolitana una volta nella vita durante il Covid e nella carrozza vuota l’unico passeggero si è seduto di fianco a me. Lo stesso ho pensato leggendo “Le 12 civette” che mi ricorda dal titolo qualcosa ma non ho cercato, chi se ne frega. Voglio leggere. Agatha Christie? Forse. Boh. Chi l’ha mai letta tutta? Risolverà anche i gialli da camera chiusa ma che noia non vomita mai nessuno. Comunque sono andato fuori tema perché la bellezza di questo romanzo è che lo leggi e ti fa viaggiare, senza obliterare, perché è talmente potente da sembrare quasi troppo perfetto. Da lettore ne voglio ancora. Da critico lo stesso. Da critico mi ha subito fatto sobbalzare il cognome, amo “cavalcare la tigre” e la mia è una “rivolta contro il mondo moderno”. Da sempre. Inizio a leggerlo e non smetto di sorridere e di vedere dove questa Evola vuole andare a parare. Ma arrivo alla fine,da critico, che ho dimenticato i riferimenti, i richiami, le allusioni e mi sono trovato lettore. Lo so che le mie recensioni non hanno sotto le stelline per lo stile, scrittura, trama e copertina. Darei 5 a tutto. Il massimo. Appunto perché era tanto che non mi ritrovavo lettore. Il massimo regalo che un libro possa dare. Dimenticarsi di se e girare pagina come in una serie tv. Forse non è un complimento, ma oggi lo è. Oggi intendo in questo presente serializzato, dove perché leggere? Se sei sano guarda la tv o fai sport o leggi un romanzo piccolo piccolo che poi tanto passa ed è tutto narrativa.
Poi torna il critico. Chi è Juliette Evola? Farà parlare questo romanzo (Polidoro, dal 2 febbraio) cercheranno di capire ma a me cosa me ne frega? Perché non è Shakespeare – troppo perfetto per non essere un software-, troppo avanti per essere uno di quei gruppi collettivi che non sono altro che associazioni a delinquere di stampo immaginario. Eppure mi sono venuti in mente tanti scrittori contemporanei. Di ognuno genialmente il meglio. Ma poi ho riso e riso ancora perché l’autricessa, chiamiamola così, ha una genialità nel passare da una riga all’altra ad una parodia feroce ma amorevole (non paracula) degli autori di oggi, dell’immaginario collettivo di oggi, che non ha pari. Impossibile non pensare: e’ un genio.
La trama? Chi se ne frega. Se la cercate cambiate pagina, qui tutti non sono criticati in un “panorama” che un tempo non avrebbe passato il Rubicone e oggi fa tanto rivoltoso innocuo, ma alto e basso si coniugano in una risata perché capiamo che l’editoria è diventata una parodia di se stessa, qualcosa che sta in piedi così come il presepe di cartapesta in una chiesa di periferia, quella anni 70 squadrate e con i mosaici in vetro stile senza stile.
La grandezza è anche per chi non conosce l’ambiente la lettura e’ immaginifica. Perché ci fanno comprendere come siamo noi ad aver innalzato a idola (nell’accezione greca) dei personaggi che elencati, come farebbe Pynchon, diventano dei coglioni. Semplicemente perché sono dei coglioni.
Compreso me. Avrei dovuto limitarmi a scrivere: leggetelo. Ma lo farò. Ricordandomi più che JT Leroy il grande Dennis Cooper. E che mancava un romanzo con più piani di lettura e allora Hal9000 diventa IBM. Basta spostare ogni lettera avanti.
Gianpaolo Serino
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Dove vanno a morire gli uccelli?
L’avevo quasi calpestato. Non mi era mai capitato di imbattermi in una carogna in pieno centro, tanto più di fronte all’ingresso di una chiesa. In effetti era una domanda che mi ero posto spesso, visto che di uccelli morti in giro se ne vedono pochissimi e avevo sempre immaginato che, concluso il loro ciclo vitale, per una sorta di istinto primordiale andassero a spegnersi in posti appartati o si gettassero in mare. A ognuno di noi, almeno una volta nella vita, è capitato di imbattersi in qualche uccello morto, ma il numero di carcasse e cadaverini in circolazione non corrisponde neppure lontanamente ai milioni di volatili che vediamo librarsi in cielo o che se ne stanno appollaiati su tetti, alberi e cavi della luce. Qualcuno potrebbe obiettare che ci sono predatori, insetti, batteri e che la natura fa il suo corso prendendosi cura delle loro carogne e decomponendole rapidamente, ma in ogni caso i conti non tornano. Ci deve essere per forza un posto segreto dove gli uccelli vanno a morire.
Mi ero arrestato appena in tempo fissando quel corpicino come inebetito. Ma era il giorno della marmotta e la festa della Candelora ed era pure una giornata palindroma, per cui un pitagorico come me avrebbe dovuto essere di ottimo umore e non volevo interpretare l’incontro con quella piccola salma come un presagio funesto, anche considerata l’importanza che quella chiesa aveva avuto nella mia vita. Alzai lo sguardo verso la facciata rassicurante di San Domenico, cacciai dalla mente l’immagine del piccione smembrato e proseguii verso il bar.
Come sempre la domenica, ero uscito di casa verso le nove per acquistare l’inserto culturale del Sole24ore e fare colazione al solito caffè di via degli Spadari. In genere al cappuccino e al cornetto facevo seguire una corsetta rigenerante nell’immediata periferia di Ferrara, ma la lettura di un articolo di Giulio Busi sui due libri biblici di Samuele, profeta e ultimo giudice di Israele vissuto intorno al 1.000 a.C., mi rigettò nel pieno delle mie paturnie esistenziali. Mi limitai dunque a una passeggiata in centro in preda ai pensieri più cupi. Anche perché non avevo più voglia di tornare a casa per cambiarmi e in cielo si raddensavano minacciose nubi scure che non promettevano nulla di buono.
Samuele. Non sapevo perché i miei genitori avessero scelto di chiamarmi così. I miei non erano particolarmente religiosi né mi risultava avessero alcuna familiarità con la cultura ebraica. A vent’anni me ne andai di casa e la questione restò irrisolta per un bel pezzo nel senso che non potei più domandarglielo di persona, perché mio padre, con cui in pratica non avevo mai avuto alcun rapporto, se lo portò via un tumore l’anno successivo e mia madre era già morta in un incidente stradale quando avevo quindici anni, lasciando da soli me e mio fratello Paolo, di cinque anni più grande, che aveva ricevuto in sorte un nome decisamente più convenzionale.
Negli anni successivi scoprii che il nonno paterno, che era morto alla fine degli anni Settanta e di cui ricordavo poco o nulla, aveva in effetti origini ebraiche, tanto è vero che è sepolto nel cimitero di via delle Vigne, poco distante dal monumento a Giorgio Bassani. Cominciai allora a interessarmi della sua famiglia e di storia locale, lessi (e odiai) Il giardino dei Finzi Contini e Gli occhiali d’oro, imparando a conoscere la mia città, con il rammarico di non averlo fatto quando i miei erano in vita. In fondo non c’è niente di meglio di autentiche radici giudaiche per distinguersi dalle masse omologate e da quel momento in poi non ne feci mistero con nessuno e, anzi, infilavo le mie origini ebraiche un po’ ovunque.
Dopo il diploma di perito elettronico, le ristrettezze economiche in cui mi venni a trovare a seguito della morte di mio padre mi costrinsero ad abbandonare le velleità universitarie di una facoltà umanistica che pure per qualche tempo avevo frequentato. Ebbi, diciamo così, la “fortuna” di trovare quasi subito un lavoro in un negozio di componentistica informatica a pochi chilometri da Ferrara di cui, nel giro di una decina d’anni, divenni proprietario insieme all’altro dipendente che fino a quel momento aveva fatto come me il commesso, Giovanni Delmastro, detto “de Maistre”, del quale nel frattempo ero diventato amico fraterno. Insieme decidemmo di ribattezzare il negozio LCN, un acronimo che voleva essere anche un calembour kubrickiano, anche se nessuno in tanti anni ha mai colto il riferimento a 2001 e a HAL 9000.
Di passioni culturali ne avevo avute sin da giovanissimo. Ed erano genuine, non inculcate da nessuno. Durante gli ultimi anni delle superiori divenni proiezionista in una storica sala d’essai che proiettava film esclusi dal circuito commerciale. Ero il nerd informatico del mio gruppo di amici ma nel tempo, grazie al lavoro all’Astra, acquisii anche una discreta cultura cinematografica di cui mi servivo per far colpo sulle ragazze. Fu in quel periodo che scoprii i grandi film dell’Espressionismo tedesco, in particolare quelli di Murnau e Lang e mi invaghii incondizionatamente di Samuel Fuller e di Max Ophuls, di cui ebbi il privilegio di proiettare il 35mm di Lettera da una sconosciuta che da quel momento divenne il mio film preferito e che rivedo almeno un paio di volte all’anno.
Mi piaceva molto leggere, anche se le mie letture sono sempre state disordinate e anarchiche. Compulsavo in continuazione biografie e saggi storici sulla Seconda Guerra Mondiale, la diaspora ebraica, il Terzo Reich esoterico, le amanti segrete del Führer e altre cose di quel genere, così come divoravo letteratura di puro intrattenimento come gialli Mondadori e romanzi di fantascienza dell’Urania acquistati a poche migliaia di lire alle bancarelle.