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(liberamente ispirato a Marcel Proust, La Prisonnière)
C’era stato un altro segnale. Un dettaglio che aveva rafforzato le mie inquietudini du côté de Gomorrhe. Un’impressione confusa, eppure ostinata, come quando si teme un pericolo che ancora non ha nome ma già si impone al corpo.
La vidi per la prima volta sulla spiaggia. Camminava lenta, con passo diritto, il volto pallido e assorto. Aveva negli occhi una luce inquietante, netta, che sembrava non riflettere il mondo, ma proiettarlo. «Des rayons si géométriquement lumineux qu’on pensait, devant son regard, à quelque constellation.»
Mi trovai a pensare che era più bella di lei. Più silenziosa, più pura. E subito dopo mi accusai di quel pensiero: era vile, era sleale. Eppure non riuscivo a negarlo. Forse sarebbe stato più saggio rinunciare a tutto, lasciarla.
Ma qualcosa turbava quella bellezza. Non visibile a un primo sguardo, ma profondo, insinuato sotto la pelle. «Tout au plus le visage de cette belle jeune femme était-il passé au rabot invisible d’une grande bassesse de vie, de l’acceptation constante d’expédients vulgaires.» Sembrava che gli occhi – unici a conservare una nobiltà – brillassero ormai solo «d’appétits et de désirs.»
Il giorno seguente, la rividi al Casino. Era seduta lontano, su un lato della sala, in ombra. Credevo non mi avesse notato, ma non guardava me. I suoi occhi, con movimenti lenti e continui, cercavano lei.
«Je vis qu’elle ne cessait de poser sur Albertine les feux alternés et tournants de ses regards.»
Sembrava mandarle segnali.
«On eût dit qu’elle lui faisait des signes comme à l’aide d’un phare.»
Provai una stretta. Non solo perché lei, Albertine, si sarebbe accorta di quell’attenzione, ma perché poteva volerla. Poteva leggerla. Temevo – sì, proprio così – che quegli sguardi, «incessamment allumés», avessero il significato convenzionale, muto ma chiaro, di un appuntamento d’amore per il giorno dopo.
E io restavo lì, come uno spettatore non previsto, escluso da un linguaggio che non mi apparteneva.
Postfazione
In questa riscrittura ispirata a La Prisonnière di Marcel Proust (À la recherche du temps perdu), si è cercato di trasporre nel presente non solo la situazione narrativa – il triangolo silenzioso fatto di sguardi e sospetti – ma anche l’atmosfera psicologica, fatta di malinconia, desiderio non risolto e tensione interiore. L’originale è un esempio perfetto di come Proust riesca a mostrare l’instabilità del desiderio umano, oscillante tra idealizzazione e disillusione.
Le frasi francesi lasciate nel testo – «des rayons si géométriquement lumineux qu’on pensait, devant son regard, à quelque constellation» oppure «qu’elle lui faisait des signes comme à l’aide d’un phare» – non sono semplici citazioni, ma atti di fedeltà poetica: conservano la voce inconfondibile di Proust, che nel passaggio d’epoca sarebbe altrimenti appiattita.
Il riferimento a “Gomorrhe” non è solo una condanna all’omosessualità (che Proust, omosessuale egli stesso, tratteggia con un misto di fascinazione e censura sociale), ma un segno della modernità del testo: parla di desideri che non si lasciano facilmente nominare, e che mettono in crisi l’identità stessa del narratore. In questo senso, il brano resta profondamente attuale.
Francesca Mezzadri
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Fonti
Marcel Proust, À la recherche du temps perdu. La Prisonnière, édition de Jean-Yves Tadié, Gallimard, Bibliothèque de la Pléiade, 1989.
(citazioni tratte da p. 851 / édition Tadié)
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