3 luglio 1968, New York
Valerie stringe il sacchetto di carta come se contenesse la verità rivelata, e forse è proprio così. Dentro, c’è tutto il necessario per la sua performance: due pistole e un pacco di assorbenti. La sintesi della sua esistenza — sangue e sopravvivenza.
Gli assorbenti sono lì quasi come una beffa, l’accessorio meno glamour possibile in quel circo di paillettes e droga chiamato Factory.
Mentre Andy galleggia nel suo solito stato di trance pop, Valerie pensa che ci sia qualcosa di poeticamente perfetto nel fatto che il suo momento di gloria, porti con sé una confezione di cotone pressato e promesse pubblicitarie sulla “freschezza duratura”. In fondo, anche Andy è solo una confezione ben venduta.
La Factory, il cuore pulsante della creatività warholiana, quel giorno ha un’aria più distratta del solito. Il via vai di artisti, aspiranti superstar e parassiti assortiti riempie l’aria di fumo e chiacchiere svogliate.
Valerie Solanas, invece, ha ben altro in mente. È la settima volta che risale a quel dannato sesto piano, per essere sicura di non perdere l’entrata di Andy alla Factory.
Indossa un cappotto pesante, fuori stagione e fuori luogo. Il rossetto, che di solito snobba, oggi le tinge la bocca come una dichiarazione di guerra. In mano il suo innocuo sacchetto di carta.
Ma Valerie non è venuta per discutere.
Warhol, ignaro come sempre delle tragedie umane che gli gravitano intorno, la lascia salire con Jack Johnson, l’uomo che la accompagna. Lui ha tutta l’aria di uno che si è trovato lì per sbaglio, un personaggio di contorno in una sceneggiatura che sta per esplodere.
Il loft è pieno di persone, ma nessuno si accorge di nulla. È sempre così alla Factory: tutti ci sono, ma nessuno guarda davvero. Andy si siede, risponde al telefono, chiacchiera leggero. Valerie è lì, ferma, con le tempie che pulsano. Sa cosa deve fare. E in pochi secondi, tutto cambia. La Factory, quel pomeriggio, diventa esattamente quello che sembrava sempre essere: un set. Solo che stavolta non c’è niente pellicola patinata. È più un B-movie girato male, con sangue vero e proiettili veri.
Andy, al telefono, è distratto — come sempre. Forse sta commentando la messa in piega di Viva o forse sta pensando che Valerie, con quel cappotto fuori stagione, sembra l’incrocio tra un senzatetto e una spia sovietica. La guarda, ma non la vede davvero.
Valerie, invece, lo vede benissimo. E adesso lo sta inquadrando come un bersaglio al poligono.
Tira fuori una Beretta 32 dalla busta di carta, Bang. Mancato. Bang. Mancato di nuovo. Andy, che fino a quel momento sembrava troppo etereo per capire cosa succedeva intorno a lui, si ritrova miracolosamente agile e si infila sotto la scrivania.
Valerie si avvicina e spara ancora. Stavolta non sbaglia. Il petto di Warhol si colora di rosso.
Mario Amaya, critico d’arte e presenza fissa alla Factory, si becca anche lui una pallottola. Valerie non fa le cose a metà. Poi punta Fred Hughes, il manager di Andy, ma la pistola si inceppa. C’è sangue dappertutto.
Valerie non ha tempo per riflettere. Scappa nell’ascensore. La Factory è il caos totale: urla, panico, gente che corre come formiche impazzite. E Andy, sanguinante, non sembra più tanto immortale.
Ma come diavolo siamo arrivati qui? Cosa ha portato questa donna, brillante e devastata, a premere il grilletto? E perché proprio Andy Warhol, l’uomo che trasformava tutto ciò che toccava in oro, è finito a terra come una delle sue serigrafie rovinate?
Forse è ora di tornare un po’ indietro e vedere da dove è partita tutta questa tragedia — perché non nasce di certo da quel sacchetto di carta.
Valery Solanas nasce il 9 aprile 1936 in una cittadina del New Jersey. Ha un’ infanzia ed un’ adolescenza orribili. Viene trasportata da parente a parente come se fosse un pacco mentre il padre Luis, un barista canadese con origini spagnole, ne viola ripetutamente l’ innocenza. Lei reagisce con una condotta amorale e promiscua. A soli 15 anni, mette al mondo il suo primo figlio che le crescerà accanto come fosse un fratello. L’ anno dopo nasce David, il suo secondo bambino che verrà dato in adozione (non so dirvi se percorrendo le vie legali) a un veterano della guerra in Corea, amico del padre di Valery. A scuola non fa mistero delle sue tendenze omosessuali e per questa ragione sarà emarginata e bullizzata dai compagni. Il suo carattere si forma ribelle, estremo, acuminato, aspro. È in debito con la vita ma non soccombe. Reagisce, vuole avere parte attiva nel cambiamento dei paradigmi della società che definisce indegna e riprovevole. Vive l’emarginazione più nera derivante dalla povertà, dalla sua sessualità, dai suoi ideali più radicali. Questi ultimi, soprattutto, la portano a sbattere la faccia contro i muri tirati su da una struttura sociale che la esclude, la respinge. Si iscrive al corso di studi in psicologia all’Università del Maryland durante il quale scriverà articoli di natura femminista, dal piglio caustico e tagliente. Lasciata l’Università si mette a vagare per gli States in autostop. Nel 1961, decide di stabilirsi a New York. Sopravvive nella povertà più profonda. Passa le notti con i senzatetto, va a mangiare nelle comunità di accoglienza, accetta i lavori più umili, arriva a prostituirsi. Ma anche se travolta dalla povertà, piegata dalla stanchezza, per doversi procacciare ogni giorno di che vivere, ha ben chiaro il suo obiettivo grazie al quale riesce a tenere ben saldo il timone e navigare verso la meta.
Perché Valerie Solanas ha un’urgenza profonda: non vuole solo sopravvivere, vuole essere vista, ascoltata, compresa, ma, soprattutto, vuole distruggere tutto ciò che non la riconosce. La sua vita, segnata da traumi e difficoltà, non è solo una sequenza di eventi passivi. È una reazione costante, una risposta a un mondo che l’aveva etichettata come “diversa” e “fuori posto”.
La sua ribellione, però, non è solo contro le convenzioni sociali o contro la sua sessualità, ma contro l’intero sistema che l’aveva emarginata, che aveva deciso che la sua voce non meritava di essere ascoltata. La sua lotta non è solo per sé, ma per un’intera categoria di persone che vivevano ai margini, non solo socialmente, ma anche intellettualmente e politicamente.
Perciò, perché? Perché Valerie era la risposta a quella società per la quale era trasparente.
SCUM — ovvero la perla di Valerie Solanas, scritta nel 1967, un anno prima che la sua vita prenda quella piega drammatica che ci conosciamo. Un manifesto che non è solo radicale, è proprio un colpo in faccia al patriarcato. E vi sbagliate di grosso se pensate che questa fosse una lettura da sera tranquilla con una tazza di tè.
Per cominciare, SCUM — questa meraviglia di acronimo che tutti si affannano a decifrare come Society for Cutting Up Men (sì, avete capito bene, “Società per l’evirazione degli uomini”), ma che Valery ha sempre negato essere tale. No, signori, non è un acronimo. È solo la parola che in molti vorrebbero usare per descrivere l’umanità. Parliamo di “feccia”, sì, quella che rotola sotto i tappeti e che nessuno vuole vedere.
Nel suo manifesto, la Solanas non fa prigionieri. Inizia con una lista di caratteristiche che renderebbero la donna ideale per governare il mondo: dominatrice, egoista, avventurosa, un po’ strafottente, e ovviamente, “orgogliosa”. “Femmine che pensano solo a se stesse e che si sentono pronte a governare l’universo”: beh, a chi non piacerebbe? Scordatevi la modestia. In questo nuovo mondo, il concetto di “gentilezza” è alieno.
Poi, il resto della lettera è una specie di buffet del più puro odio per il genere maschile: “Gli uomini sono la causa di tutto ciò che è brutto nel mondo!” — un’accusa forse un po’ troppo radicale, ma nella foga della scrittura, chi ha tempo per dettagli? Le guerre, le disuguaglianze, il sistema del lavoro, le rotture di scatole quotidiane: tutti colpevoli, nella struttura sociale. E come si risolve il problema? Semplice: eliminando gli uomini. Giusto, così, con una facilità che ci lascia tutti un po’ sorpresi, ma contenti nel vedere finalmente un po’ di “efficienza“.
E poi, il suo “tocco dello chef“: Freud, il vecchio papà della psicanalisi, viene spazzato via come una foglia secca, sostituito da una visione che ribalta tutto. “Invidia della vagina”: è l’uomo il vero inferiore, il vero “debole”.
Non proprio il concetto che ti saresti aspettato da un manifesto femminista di metà secolo. Ma questa è Valerie, e come tutti sanno, chi osa sfidare l’ordine stabilito non va certo per mezze misure.
Le sue idee non vengono prese sul serio- ovviamente. Vende il manifesto per le strade di New York a 25 centesimi per le donne e 50 per gli uomini. Un affarone, direi, se si considera che, probabilmente, la gente la guardava come se fosse appena scappata da un film horror. Ma quello che nessuno capiva è che quanto diceva, è esattamente ciò che pensava, senza filtri, in modo assurdo ma lucidamente coerente.
Andy Warhol, nasce nella città d’acciaio, Pittsburgh, che non è proprio la capitale del glamour, Il piccolo Andy, figlio di Ondrej Warhola (che diventa Andrew, perché non è che puoi andare in giro con un nome che suona come quello di un intruso, nella perfetta società americana) e della mamma Júlia, è l’ultimogenito di una famiglia di origini modeste, con un padre che lavora in miniera e una madre che, poverina, riesce a parlare solo nella lingua madre: il ruteno — una specie di mix tra ucraino, polacco e tedesco.
Ecco, in questa piccola isola linguistica, cresce Andy. Ma non è che a casa andava tutto rose e fiori: la famiglia è emarginata e, come molti, si trova ad affrontare difficoltà economiche quotidiane. La mamma, che si è sempre rifiutata di imparare l’inglese, si dimostra una straordinaria affabulatrice quando parla in ruteno — ma in pubblico è l’immagine della donna incapace di integrarsi, sempre in difficoltà.
Andy, fin da piccolo, è il classico bambino che non segue il manuale di “Fai il bravo”. Timido, introverso e capace di sprofondare nel suo mondo fatto di disegni e illustrazioni. A sette anni, fa un incontro ravvicinato con la febbre reumatica, accompagnata da quella che viene chiamata la “malattia del ballo di San Vito”. Immaginate il piccolo Andy che si dimena come una marionetta fuori controllo, facendo una strana danza involontaria che sarebbe stato il sogno di un coreografo avant-garde. La sua malattia è motivo di frustrazione, quella febbre lo costringe a letto, ma è proprio grazie alla malattia, che Andy si rifugia in un’attività che lo farà diventare famoso: il disegno.
Quindi, anziché diventare protagonista di un dramma familiare, il giovane Andy decide di trasformare la sua cameretta in un piccolo laboratorio artistico, con la madre Giulia che fa da pubblico e critica d’arte (sempre ben disposta, nonostante non capisse un’acca di arte moderna). È proprio in questi mesi di isolamento che Andy si prepara a diventare il genio, “la Leggenda” che ci ha lasciato uno degli imperi dell’arte contemporanea.
E chi lo avrebbe mai detto che il ragazzo con il ballo di San Vito, un giorno avrebbe fatto ballare l’intero mondo dell’arte?
Andy Warhol, quando torna a scuola, è praticamente l’emblema della stranezza. Non che prima fosse un atleta o il figo della scuola, ma dopo la malattia diventa un personaggio decisamente… unico. Con la pelle macchiata dal morbo e il viso segnato da acne violenta, il ragazzo si presenta come una versione ambulante di un disegno mal riuscito. Se poi aggiungiamo un naso prugnoso e una chioma di capelli che sembrano fatti di paglia, e un accento che tradisce immediatamente le sue umili origini, bhe si capisce perché non era tra I ragazzi più popolari della scuola.
Povero Andy, nessuno lo considera. La scuola è una giungla sociale e lui viene ignorato e deriso da tutti. Un po’ più tardi, nel suo diario, ammetterà con una sincerità disarmante “Nessuno si confidava con me. Evidentemente non ero il tipo con cui potersi confidare.” A questo punto, Andy sembra quasi divertito a esasperare la sua “stranezza” a colpi di vestiti sgargianti e pose da manuale, come quelle con le mani sotto le guance, a imitare l’iconica Shirley Temple. Andy è gay, ma nel 1940 è sufficiente essere effeminato per far scattare il campanello del “non proprio normale“.
Ma, come ogni storia di chiunque abbia davvero talento, la sua eccentricità non fa che mettere in evidenza la sua genialità. Mentre il suo aspetto diventa sempre più esagerato, la sua mano rimane un modello di precisione: un paradosso perfetto. Dopo l’università a Pittsburgh, si trasferisce a New York nel 1949. E lì comincia a fare i conti con la realtà: affitta una stanza in un edificio fatiscente e si lancia nel mondo dell’illustrazione, con il suo portfolio sotto il braccio come un oggetto sacro. E la povertà? Oh, sì, si fa sentire. E Andy se ne rende conto e se ne vergogna. Ricorderà, anni dopo, che mentre mostrava i suoi disegni all’art director di Harper’s Bazaar, un bel giorno, dal suo portfolio spuntò uno scarafaggio.
Ma Andy sviluppa un’insospettabile ostinazione che, se gliel’avessero predetta dieci anni prima, avrebbe suonato come una battuta da bar. Questo nuovo slancio gli permette di iniziare a farsi strada, ma ciò che più sorprende è la sua abilità a socializzare. Il timido e introverso Andy, con il suo senso di inferiorità e il costante disagio per il suo aspetto, riesce a farsi benvolere. E non solo nel mondo dell’arte, ma anche negli ambienti omosessuali. Ovviamente, in amore non è una passeggiata: le sue relazioni finiscono sempre malissimo, spesso a causa dei suoi complessi, che lo rendono incapace di accettare se stesso. Figuriamoci esporre il suo corpo ad un’ altra persona…un’ eresia.
Ma c’è una stranezza che colpisce: quegli oggetti che la gente comune, gli americani medi, accumulano nelle loro case e che Andy definisce “uguali per tutti“. Lontano dall’essere solo oggetti di consumo, per lui diventano un modo per sopperire a quel senso di solitudine che lo ha accompagnato tutta la vita. Sono il suo antidoto, il suo modo di combattere il dolore che provava da quando si sentiva diverso, emarginato. Per Andy, l’omologazione è la chiave per non essere lasciato indietro. Se tutti sono uguali, nessuno è veramente diverso. Ed è questa ricerca di appartenenza, di inclusione, che diventa il suo obiettivo.
La sua teoria è tanto semplice quanto diabolica: se tutti non sono belli, allora nessuno lo è. E allora Andy inizia a produrre il “tutto uguale“, ma diverso. Infinite Marilyn Monroe, lattine di zuppa Campbell, bottigliette di Coca Cola, in tutte le varianti di colore. E non si limita agli oggetti: finisce anche lui nelle sue opere. Si fa dipingere e riprodurre, più e più volte, in quelle famose serigrafie dai colori fluorescenti. Si crea un’immagine codificata, distaccata dalla realtà, dove non tenta di correggere i suoi difetti, ma al contrario, li esalta. Diventa una caricatura di sé stesso, come se il suo essere “diverso” fosse l’unica cosa che lo definisse.
Le movenze di Andy, così squisitamente femminili, diventano la sua armatura, il suo scudo contro il mondo esterno. Le mani fluttuano nell’aria, come se stesse sempre facendo un delicato esercizio di stretching emotivo, distaccato da qualsiasi critica. È il suo tocco distintivo, la sua risposta a un mondo che lo ha sempre visto come un diverso. E nessuno, ripeto, nessuno, potrebbe mai ridicolizzarlo più di quanto abbia fatto lui stesso. Geniale: fai di te stesso una parodia così grande che chiunque provi a ridicolizzarti non farà altro che partecipare alla tua performance.
Il capolavoro di Warhol non è solo la ripetizione delle sue opere, ma l’incredibile capacità di replicare la sua stessa vita. Per esempio arriva a mandare un attore vestito esattamente come lui a tenere conferenze universitarie, e, incredibile, nessuno si accorge della sostituzione. Strato di cerone, parrucca identica, occhiali da sole da “finto genio“, tono di voce basso e indistinguibile. Non c’è più un “vero” Andy Warhol: è solo una performance vivente, un’opera d’arte a sé stante, talmente codificata che nessuno osa interromperla.
Andy, che vive le emozioni come una sorta di fastidioso bug software, sogna di diventare una macchina. Perché, come lui stesso dice, “le macchine non hanno problemi“. E quando le emozioni non sono più un ostacolo, tutto è più gestibile. Andy si rifugia nelle macchine, che gli sembrano molto più affidabili di qualsiasi essere umano, e diventa obiettivo di un’infinita ricerca di “ordine” e “ripetibilità“. Il registratore vocale diventa il suo compagno di riflessioni. 4000 audiocassette, niente meno, che trasformano la sua solitudine in una cronaca meticolosa. Ma chi ha bisogno di compagnia quando puoi registrare tutti i tuoi pensieri e sentire gli altri raccontarti le loro disavventure?
Il colpo di scena arriva quando ad Andy, finalmente al di sopra di tutto, succede qualcosa che non poteva prevedere: mentre lui non ha più bisogno di niente, è proprio in quel momento che tutti sembrano voler parlare con lui. Chiedergli consigli, raccontargli le proprie disgrazie. Non un genio, non un artista, ma semplicemente l’oggetto da venerare.
Eppure, nonostante il suo disinteresse per i drammi altrui, Andy non è immune a sentire tutto ciò entrare dentro di lui. I problemi degli altri non sono solo racconti, sono virus che si insinuano nelle sue carni, spargendosi come germi. Così, Andy si trova a fare un giro dallo psichiatra, ma, come ogni altra cosa nella sua vita, presto se ne stanca e lo sostituisce con qualcosa di più pratico e, soprattutto, meno emotivo: la televisione. Non un semplice intrattenimento, ma un vero e proprio scudo, la sua nuova macchina prediletta.
Acquista il suo primo apparecchio, un RCA da 19 pollici in bianco e nero, da Macy’s. La tiene accesa in sottofondo mentre la gente gli racconta le proprie disgrazie, come se fosse la colonna sonora delle loro vite. In questo modo, può mantenere un sano distacco emotivo, filtrando tutto ciò che lo circonda attraverso lo schermo. È il perfetto equilibrio tra il bisogno di compagnia e l’insofferenza per le connessioni umane. E anche dopo una nottata di eccessi nel jet-set newyorchese, quando la società sembra rotolare nel caos, Andy si rifugia nella sua routine: accende la TV e si addormenta. La sintesi di un uomo che non sa più cosa fare della propria solitudine, se non usarla come alibi per non dover mai davvero entrare in contatto con il mondo.
Nel 1963, Andy trova finalmente un posto dove poter dare forma ai suoi deliri creativi: affitta un magazzino al quinto piano della 47esima Avenue. È la sua prima vera Factory, un covo di idee e persone che non sempre hanno un motivo preciso per essere lì. Le pareti, sporche e fatiscenti, vengono ricoperte di carta stagnola, creando la leggendaria Silver Factory. Ma la Factory non è solo uno spazio fisico, è anche un luogo metaforico che muta con lui. Ogni Factory che seguirà avrà la stessa essenza: un gruppo di persone che orbitano intorno a lui senza un motivo chiaro. C’è chi dà una mano, chi usa il telefono, chi semplicemente ciondola senza far nulla. Eppure, mentre il caos impera attorno a lui, Andy resta immobile alla scrivania, concentrato sul suo lavoro come se quel rumore di fondo fosse la sua colonna sonora ideale, un’energia che gli permette di produrre.
Lui, che non ha mai saputo come gestire un’interazione umana sincera, diventa il confidente involontario di tutte queste persone. Ascolta senza dire nulla, ma, nel farlo, ricompone se stesso. È un gioco di bisogni, un continuo scambio di mancanze. Le voci, le emozioni e le tensioni che pervadono la sua Factory si riflettono nelle sue opere, nei suoi film e nei suoi scritti: un vortice di impressioni difficili da afferrare, ma che, in qualche modo, raccontano la sua verità. Un Andy Warhol che, più che mai, si dissolve nella sua stessa creazione.
Ed è proprio in questo turbinio che entra in scena Valerie Solanas, la donna che, come un uragano, scardina l’ordine fragile della Factory. La sua proposta arriva nel 1967. Vuole pubblicare il suo “Up Your Ass“, un titolo che di per sé basta a suscitare curiosità, anche se Andy, da bravo paranoico, sospetta subito che dietro quella provocazione si nasconda qualcosa di più oscuro. Pensa che Valery potrebbe essere una spia sotto copertura, una trappola della polizia, un tentativo di incastrarlo per qualche crimine che nemmeno lui sa di aver commesso. Ma la curiosità è più forte della sua paura, quindi accetta di incontrarla. Per tirarsi indietro subito dopo, come se fosse il classico gioco di “ti invito e poi ti ignoro” che tanto amava fare. Ma, come sempre succede con Andy, la situazione gli sfugge di mano e, per rimediare alla sua ritirata, decide di far recitare Valerie in uno dei suoi film, un gesto che segnerà l’inizio di una presenza costante e insistente nella sua vita.
Nel frattempo, Valerie non si accontenta di fare la comparsa. Ha una missione: trovare un editore per il suo SCUM Manifesto, il testo che urla vendetta contro il patriarcato e che la porta a ciclostilare migliaia di copie. Ne manda tre a Warhol, uno per lui, uno per la Factory, e uno “da tenere sotto il cuscino” .
Ma nonostante i suoi sforzi, le porte le si sbattono in faccia. Quando finalmente trova un editore disposto a pubblicarla, un nome conosciuto ma poco rispettato, sottoscrive un contratto per 500 dollari, ma ben presto, nel suo personale dramma da solitudine paranoica, si pente di aver ceduto i diritti delle sue parole. La paura che tutto le scivoli di mano la divora, e la sua ossessione per la perdita del controllo cresce. Così si rivolge a Warhol, per chiedere aiuto.
Come fanno tutti.
Andy, sempre disponibile con i suoi legali (ma mai troppo coinvolto personalmente), le fa esaminare il contratto. Il responso è chiaro: non è vincolante. Ma Valerie non si fida. La sua frustrazione esplode in una spirale di angoscia che scivola dritta verso la malattia mentale. Ogni tentativo di aiuto è vano. Si rifugia nel sarcasmo, nell’odio, in lettere che diventano sempre più disperate. Inizia a tormentarlo con telefonate, anche al numero privato di casa sua, un numero che pochi conoscono. La solitudine e l’isolamento aumentano, e l’ultimo anello di questa catena lo spezza il Chelsie Hotel che la sfratta per mancato pagamento dell’affitto. Ora è senza soldi, senza casa, e senza un reale punto di riferimento.
Il suo mondo si restringe, e il suo comportamento diventa sempre più ossessivo e irrazionale. Le telefonate si fanno sempre più insistenti, le lettere sempre più cariche di rancore. Ed è così che, nel caldo luglio del 1968, il destino di Andy e Valerie si incrocia in modo tragico, in una data che segnerà per sempre il confine tra il caos della sua vita e la fine di tutto: il 3 luglio, l’inizio della fine.
Valerie Solanas entra in un bar con un sacchetto di carta in mano, rossetto e cappotto. Ha appuntamento con due produttori. Per quattro ore prova a convincerli a dare vita ai suoi scritti. Loro sorridono, scuotono la testa, cercano di liquidarla. Lei, stufa marcia, tira fuori la pistola. La convincono a riporla di nuovo nel sacchetto, e lei si alza e se ne va, lanciando però una promessa nell’aria a cui nessuno dei presenti, dà importanza: “Sparerò ad Andy Warhol.”
Mantenere le promesse è importante.
Poche ore dopo, eccolo lì Andy, disteso per terra, con un buco che sanguina e l’aria che gli manca. Il proiettile fa il giro del suo corpo: intestino, milza, fegato e, come gran finale, i polmoni. Ogni organo timbra il cartellino. Non riesce a respirare e ripete solo quello. Intorno, il caos. La Factory si trasforma in un set surreale — ma il protagonista è troppo occupato a morire per apprezzarne l’estetica.
Parte un rallenty. Le lancette dell’orologio corrono e la barella non entra nell’ascensore. Sei piani di scale, come se la vita di Andy non fosse già abbastanza complicata. Lo trascinano giù, e per avere la sirena dell’ambulanza servono 15 dollari. Sì, la sirena è un optional, come i finestrini elettrici.
Warhol perde i sensi. I medici in sala operatoria lo guardano e si scambiano sguardi rassegnati. “Non ce la farà.” Ma provano lo stesso. Gli tolgono la milza, parte di un polmone e per un minuto e mezzo il cuore di Andy si ferma. Clinicamente morto. Dichiarato fuori dai giochi. Persino lui è convinto di essere passato dall’altra parte, in quella strana dimensione pop oltre la morte.
Ma Andy Warhol torna indietro, anche se la versione che si rialza dal tavolo operatorio non è più quella di prima. La vita, così come l’aveva conosciuta, si chiude dietro di lui come una porta pesante.
Da lì in poi, Warhol diventa l’ombra di sé stesso. A casa, tra dolori lancinanti, assistito dalla madre. Torna alla Factory in autunno, ma il vecchio Andy è rimasto sul pavimento a giugno. Deve indossare un corpetto giorno e notte per tenersi insieme, letteralmente. Basta che qualcuno lo sfiori per farlo sobbalzare. Le presenze alla Factory si riducono: troppe “matte e drogate” non fanno ispirazione, fanno solo paura.
Prima aveva detto che senza di loro non ce l’avrebbe fatta. Adesso, senza di loro, forse ha una chance di sopravvivere — ma a modo suo.
Warhol non muore, ma smette di vivere. E la Factory, da lì in poi, diventa solo un’installazione di sé stessa.
Valerie, fuori dalla Factory è ormai avvolta da una spirale di eventi che sembrano non fare altro che risucchiarla, si presenta alla polizia con la stessa lucidità di chi ha finalmente preso il controllo di qualcosa, ma nello stesso tempo è completamente travolta dal suo stesso gesto. La stampa, sempre pronta a ridurre la complessità di un atto al sensazionalismo, la etichetta immediatamente come “l’attrice che spara a Warhol“, un titolo che la fa infuriare. “Scrittrice“, rivendica, chiede l’errata corrige, ma la sua lotta per il riconoscimento rimarrà inascoltata, e la sua verità, quella che scivola tra le pieghe di un disturbo mentale e un desiderio spasmodico di riscatto, è destinata a non avere mai un posto in quella narrazione.
La sua risposta al gesto è chiara: Warhol non doveva più controllare la sua vita. La rimozione della sua dignità, della sua identità, era la causa scatenante, ma questo non viene mai compreso, né dalla stampa, né dalla società. Eppure, nonostante Warhol decida di non denunciarla, lei pagherà comunque tutto: il carcere, il manicomio criminale, la violenza, fisica, psichica, sessuale. La violenza, nella sua forma più brutale, culmina con l’asportazione dell’utero, un atto che diventa simbolico, ma che non la fa piegare. Le femministe la sostengono, ma la sua battaglia, per quanto infuocata, resta solitaria.
Nel carcere, continua a scrivere, a riflettere, a oscillare tra la minaccia e il perdono, creando un labirinto di emozioni dove la rabbia si mescola alla vulnerabilità. Quando nel 1968 le viene concesso un permesso premio, chiama Warhol alla Vigilia di Natale, ma la sua voce provoca in lui uno spavento da cui non riesce a liberarsi. Il legame tra di loro rimane immutato, ma la sua ossessione cresce. Dopo il suo rilascio nel 1971, le cose non cambiano: Valerie continua a perseguitarlo e, di nuovo, finisce in prigione.
Quando esce definitivamente, la solitudine e la paranoia la consumano. Gira per il Village, magrissima, assorbita dalla convinzione che chiunque voglia rubarle le sue idee. La sua paranoia si espande al punto da immaginarsi una ricetrasmittente impiantata nell’utero, simbolo di una mente ormai fuori controllo, intrappolata tra la realtà e il delirio. La spirale di auto-isolamento diventa inarrestabile.
Nel 1977, finalmente, pubblica il suo Manifesto, ma la delusione è totale: il suo sogno si scontra con la realtà di un flop clamoroso. La paranoia esplode, e il contatto con la realtà diventa sempre più tenue. Le sue parole si trasformano in mugugni, temendo che qualcuno possa rubargliele. Si allontana da tutti, diventa invisibile, fino a quando nel 1988, a soli 52 anni, muore di polmonite in una casa di accoglienza di San Francisco. Warhol se ne era andato un anno prima, lasciando, forse, senza volerlo, il vuoto che Valerie avrebbe provato fino all’ultimo respiro.
Francesca Mezzadri